Sulle potenzialità di trasformazione dello spazio. Tre note e due conversazioni

La composizione della scena, dal lontano teatro greco in poi, porta in sé l’immagine della polis in cui nasce come imitazione, rispecchiamento o sovversione. Ma quale polis si rifletterà nel teatro di domani?

La profonda metamorfosi del nostro modo di abitare lo spazio pubblico – la sua totale soppressione prima, e la sua controversa riapertura poi – non potrà che emergere sulla scena in una qualche forma imprevedibile; a venire rielaborati e ripensati saranno, inevitabilmente, il ruolo del teatro all’interno del tessuto urbano da un lato, la platea e la scena come spazio vivo di relazione tra corpi dall’altro. Mi limiterò, in questa sede, a tre note provvisorie sulle trasformazioni in atto: da leggere come appunti su un taccuino, e da affiancare a due conversazioni con esperti.

   1. Il periodo del lockdown, e quello immediatamente successivo, hanno determinato una radicale inversione delle funzioni tra spazio pubblico e spazio privato. Le strade e le piazze sono diventate i luoghi del rischio, da evitare o da percorrere rapidamente, rifugiandosi dagli sguardi e dai corpi altrui. I verbi permanere, sostare, assembrarsi, abitare si sono colorati di pericolo e di impossibilità. Al contrario, i luoghi di discussione si sono spostati tra le pareti domestiche: i pochi centimetri inquadrati dalla telecamera hanno formato il podio del discorso politico e culturale. Le librerie, le lampade, i personaggi di passaggio in secondo piano, sono diventate scenografie private, gli sfondi fissi o opacizzati la nuova skenè. La tragedia greca – e con quella, tutto il teatro occidentale – nasce raccontando ciò che accade fuori dalla porta del palazzo, davanti agli occhi del coro. Alle drammaturgie dello spazio tocca, ora, infilarsi a sbirciare tra le mura private, come in un reality show?

   2. Assemblea, teatro, concerti: da sempre e per antonomasia, i luoghi della relazione accelerata, casuale, entropica. I luoghi dei corpi vicini, del rumore dei colpi di tosse, dell’odore della contiguità. Lo spazio della relazione con gli altri, oggi, è una pratica da regolamentare, tenere sotto controllo, rendere funzionale. Le teste in platea stanno nello spazio ordinate, come edifici di una città modernista. Oppure, al contrario, l’incontro diviene un atto clandestino in cui ci si assume rischi per sé e per gli altri. La storia del teatro ne conosce tanti, però, di sotterranei, cantine, appartamenti e altri luoghi irregolari. Chissà che la riscoperta dello spazio della relazione – e del suo privilegio – possa diventare ancora una volta urgente, corsara, fantasiosa.

   3. Che i parametri estetici cambino radicalmente con le epoche, lo sapevamo già. Ma vederli trasformarsi in pochi mesi, sotto i nostri occhi, è un fatto inedito. Abbiamo scoperto quanto può essere bellissima e terribile la piazza di una città deserta e, di contro, ci siamo commossi nel vedere poche persone cantare da un balcone; abbiamo risemantizzato l’applauso, e imparato ad abbellire i costumi della pandemia, le “piccole maschere” che indossiamo nelle scene di tutti i giorni. Ci siamo assuefatti alla geometria – dei posti a sedere, delle file al supermercato, delle icone-volto sullo schermo, delle sedie disposte in una platea. Ci sembrerà bello, ancora, il disordine?

le case come personaggi sulla scena della città

CONVERSAZIONE CON GIANCARLO CONSONNI

Cosa è cambiato, in questa emergenza, nella nostra concezione dello spazio pubblico?

«C’è sempre qualcosa da apprendere dalla tragedia, come ci insegnano i greci. La speranza è che da questo momento storico prendiamo consapevolezza del valore di alcune cose che davamo per scontate, e in particolare il vivere insieme come privilegio, come condizione festosa. È questa, d’altra parte, la grande lezione della città europea: dove la disposizione delle case mima la relazione teatrale tra persone, dove i pieni degli edifici si alternano a vuoti che sono inviti a stare insieme. Ambienti di immenso pregio dove abbiamo sempre vissuto senza neanche rendercene conto. Purtroppo, in questi mesi, ho invece visto nascere alcune derive. Una certa ideologia della natura salvifica, come se le relazioni potessero riprendere vita in un ambiente miracolosamente rinaturalizzato; un paradiso perduto che viene immaginato, naturalmente, con il massimo del confort e della tecnologia a disposizione!».

Quali sono i rischi di questa visione pseudo-ecologista?

«Questa falsificazione – che mi pare riveli in controluce un funzionalismo di stampo lecorbousieriano – è anche estremamente impari sul piano sociale. L’urbanistica, cioè l’arte del fare città, mette inevitabilmente in campo i rapporti sociali. E il disegno urbano non è mai stato di classe come in quest’epoca. Allo stesso modo, le case – le ‘piccole città’, per dirla con Leon Battista Alberti – che abbiamo visto alla ribalta in questi mesi, sono di pochi e per pochi, spazi per le solitudini. Il rischio è quello di smarrire le matrici storiche del nostro vivere sociale, e di proiettarsi verso l’inselvatichimento di cui parlava Giovan Battista Vico».

Qual è il ruolo dell’arte in questo processo?

«Facilitare il processo di consapevolezza, e aiutare a riscoprire che l’uomo è un animale sociale, e che vive protetto proprio nel suo stare in una dimensione di condivisione».

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Giancarlo Consonni è poeta e Professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano. Ha curato, tra i molti altri testi, Teatro, corpo, architettura per Laterza (1998).

COME IMPARARE A ESSERE RESILIENTI

CONVERSAZIONE CON PIPPO CIORRA

Quali sono le immagini che non dimenticherà di questi mesi di emergenza?

«Dopo esserci nutriti per anni con immaginari fantascientifici alla Blade Runner, ora sappiamo cosa è davvero una distopia: una città deserta, priva di inquinamento e completamente pulita. Perfetta. Ma senza esseri umani».

L’emergenza ha portato secondo lei a un significativo ripensamento della nozione di spazio?

«La città ha mostrato, a mio avviso, una certa fatica a gestire le spinte contrastanti tra la paura persistente, e la necessità di recuperare spazi di interazione sociale. Le trasformazioni più sorprendenti, invece, le ho osservate nello spazio domestico. La casa, più di altri spazi, ha saputo incarnare l’idea di resilienza: gli spazi domestici si sono trasformati immediatamente, espandendosi fino a inglobare le funzioni di svago, lavoro, benessere del corpo. Sono state le persone, e non gli architetti, gli attori di queste impressionanti trasformazioni che lasceranno un segno nell’architettura della casa. Quella duttilità nel pensare lo spazio – e non solo lo spazio – credo possa essere un’ottima lezione anche in altri ambiti».

Dal suo punto di osservazione, come ha reagito la cultura a questa emergenza?

«Al MAXXI siamo stati sommersi, fin da subito, da progetti-lampo di designer e architetti, che ripensavano la casa, la scrivania e lo spazio privato con eleganti dispositivi. L’arte (penso soprattutto all’arte visiva e all’architettura) rischia di operare come un reagente immediato alle questioni urgenti, senza concedersi il tempo per far depositare le cose. Credo che varrebbe la pena, invece, di concedersi uno spazio di elaborazione diverso, che sappia sondare tutte le ambiguità e le complessità delle trasformazioni in atto. C’è bisogno, più che mai, di voci che non si accontentino del politically correct ma che tentino strade impervie e impreviste».

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Pippo Ciorra è architetto, critico e professore ordinario all’Università di Camerino. È senior curator del settore architettura al Maxxi di Roma.

 

Foto: Giovanni Hänninnen, The Missing Piece. Chronicles from Milano during the lockdown, 2020

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