Il tavolo dei bambini
«Ho sempre chiesto allo Stato: per favore, voglio essere trascurato! Quando ero ventenne, con Eduardo, con Dario Fo, abbiamo cominciato una battaglia invocando la chiusura del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, l’abbiamo rimproverato di non trascurarci abbastanza». Chi parla è Carmelo Bene, davanti alle telecamere del Maurizio Costanzo Show: siamo nel 1994. L’istanza, paradossale e provocatoria, racconta un dissidio in cui altri ventenni – forse meno noti – potranno facilmente riconoscersi: da un lato il desiderio di riconoscimento, la necessità di ricevere sostegno economico; dall’altro la rivendicazione della propria libertà creativa, e l’allergia a ogni genere di vincolo.
Le cose comunque sono andate in modo tutto diverso da quello auspicato dal giovane Bene. Il decennio 2010-2020 è stato segnato da una serie di politiche di finanziamento dedicate proprio ai giovani. Nel 2014 è entrato in vigore un nuovo Decreto Ministeriale con storica apertura alla categoria under 35; nello stesso decreto, la produzione di spettacoli di artisti under 35 è diventato per festival e teatri parametro di valutazione in quanto “rischio culturale”. Anche al di fuori dei finanziamenti pubblici le cose non vanno diversamente. Dal 2012 una cordata di fondazioni bancarie, guidate da Fondazione Cariplo, promuove una specifica linea di finanziamento per le start-up culturali (Funder 35); un mondo di residenze, tutoraggi, bandi regionali si è aperto per le giovani compagnie. Ma ad oggi, quali sono i risultati di queste politiche? Il panorama del settore ne ha beneficiato? È riuscito a rinnovarsi in profondità?
In apertura del nuovo decennio, la pandemia ha fermato le macchine consentendo una riflessione a freddo; il 2021 è diventato cioè un “anno zero” in grado di rivelare la tenuta e lo stato di salute del sistema. Vale dunque la pena prendersi un tempo per guardare la fotografia generazionale scattata in questo stato di immobilità; e poi occorre analizzarla, cercando di focalizzarsi sui particolari, e allo stesso tempo non trascurare lo sfondo.
Partiamo dalle conclusioni, prendendoci il rischio di riproporre il linguaggio saccheggiato dal renzismo e dal Movimento Cinque Stelle: il sistema teatrale italiano resta gerontocratico e del tutto impermeabile a un reale cambio generazionale. E ora ritorniamo all’inizio, seguendo il percorso degli artisti o delle compagnie che hanno raggiunto la maturità (cioè hanno superato la boa dell’under 35) proprio nel decennio delle aperture e delle politiche giovanili. Guardiamo a quelli che hanno fatto “le cose per bene”: quelli che hanno imparato a scovare bandi e a vincerli; a rispondere a chiamate pubbliche di residenza e coproduzione; a portare a termine rendicontazioni e relazioni finali; ad autogestirsi dal punto di vista amministrativo; a portare avanti buone pratiche anche nelle politiche del lavoro; e magari a trovare persino il tempo per fare un buono spettacolo.
Quelli che hanno fatto “le cose per bene” hanno passato il decennio in un faticoso percorso di autoaffermazione, di ricerca della propria identità artistica, e nel tentativo di una sussistenza economica. Hanno attraversato tutto lo stivale (spesso con la scenografia nel bagagliaio) da Castrovillari in Calabria fino a Dro in Trentino, in cerca di festival attenti ai linguaggi del contemporaneo, che offrissero loro la possibilità di incontrare critici e operatori. Hanno provato nuovi spettacoli nei centri di residenza, spesso organizzandosi per mostrare almeno un assaggio del lavoro in prova ai cittadini, o agli operatori, o agli studenti, o a chiunque servisse; hanno prodotto anteprime, primi studi, secondi studi, terzi studi per soddisfare le esigenze di rassegne e festival. Si sono sentiti dire che ormai quello spettacolo era bruciato perché già visto da tutti. Hanno dovuto sfornare un nuovo lavoro – anche se non era il momento, e non avevano niente da dire – perché così richiedeva il bando, la rendicontazione europea, ministeriale, regionale, comunale. Perché così richiedeva il festival che era disposto sì ad ospitarli, ma solo per un’anteprima nazionale. Hanno trovato coproduttori per avere spazi prove, sostegno logistico e di maestranze, a volte persino ottenendo qualche migliaio di euro; li hanno ringraziati in commoventi post Facebook dopo il debutto. Sono stati oggetto di recensioni entusiastiche, di stroncature, di tesi di laurea, talvolta persino di monografie. Quando sono stati molto fortunati, o molto bravi (o bravi e fortunati) hanno vinto un premio, oppure sono stati scelti da un produttore importante e solido. Hanno pensato qualche volta: «Non ce la faremo mai», e poi: «Forse ce la stiamo facendo!» e ancora: «Quanto potrà andare avanti ancora così?». Ma non si sono lasciati scoraggiare, e sono andati avanti.
E ora? Ora che sono diventati grandi, ora che hanno fatto tutto quello che dovevano fare (e pure un po’ di più), cosa succede? Le porte sono pronte ad aprirsi per loro? Il sistema teatrale intende raccogliere la severa operazione di scouting – per non dire la feroce selezione darwiniana – di festival, fondazioni e premi?
Per rispondere a queste domande, proviamo a seguire l’iter di una compagnia che costituisce, per molti aspetti, un emblematico caso di studio. Sotterraneo si è formata nel 2005 come collettivo di ricerca teatrale e ha ormai superato la boa dei quindici anni di attività. Dalla sua fondazione ha prodotto circa uno spettacolo all’anno, con debutto in luoghi di rilevanza nazionale; nel corso della sua storia ha trovato ogni virtuosa forma di finanziamento (ETI, Regione Toscana, Comune di Firenze, Ministero dei Beni Culturali, Creative Europe); ha saputo entrare in relazione con festival, circuiti, centri di produzione. Nel 2018 il loro Overload ha vinto il Premio Ubu come migliore spettacolo dell’anno. Il riconoscimento – per una giovane compagnia indipendente quasi un unicum, in una categoria storicamente riservata alle grandi produzioni su scala nazionale – è parso a molti il segno di un cambiamento dei tempi e una vera e propria “cerimonia di adultità” conferita a dei talentuosi e simpatici (ex) enfant prodige. Se si guardano i numeri, purtroppo, l’impressione cambia radicalmente. Overload, ad oggi (cioè a tre anni dal premio, mentre scrivo), vanta circa cinquanta repliche: davvero molte, se paragonate alle sorti di spettacoli coevi; poche, se paragonate ad altri premiati della stessa categoria. Delle cinquanta repliche di Overload, nessuna è stata proposta in un Teatro Nazionale; nessuna è stata presentata in un cartellone italiano per più di una data consecutiva. Questo significa che in nessun caso Sotterraneo ha potuto contare sul virtuoso passaparola del pubblico locale; e significa, concretamente, che il gruppo ha dovuto per cinquanta volte viaggiare, montare le scenografie, smontare e rimettersi in macchina (lo scenario, per altro, è perfettamente ritratto nello stesso finale di Overload, come una sorta di consapevole profezia autoavverante).
Come è facile immaginare, le sorti distributive di uno spettacolo premiato come “il migliore dell’anno” rappresentano solo la punta dell’iceberg. Per i coetanei di Sotterraneo, per quelli che hanno fatto “le cose per bene”, può andare anche peggio. Compagnia Licia Lanera, Kepler 452, Vico Quarto Mazzini, Menoventi, Oyes, Maniaci d’Amore, Frigoproduzioni, Omini – per citare solo alcune delle compagnie che hanno seguito iter simili a quelli di Sotterraneo – sono stati ospitati, in tutta la vita della compagnia, meno di dieci volte presso i cartelloni di Tric e Teatri Nazionali. Talvolta, se ospitati per una o due date, si sono accordati con il Tric per un cachet variabile “a incasso”, cioè condividendo il rischio culturale con enti finanziati dal Ministero per compiere rischio culturale. Se agli indicatori numerici sostituiamo indicatori simbolici, la sostanza non cambia. Nessun esponente italiano della generazione tra i trenta e i quarant’anni è stato preso in considerazione per ruoli di direzione artistica, o per posizioni politicamente rilevanti. I loro nomi non sono stati neanche menzionati – né come compagnie, né come singoli – nella rosa allargata dei possibili quando si è trattato di scegliere la guida di un festival (tra i casi recenti, Santarcangelo dei Teatri), o tanto meno come direttori, consulenti artistici di un teatro di rilevanza nazionale.
Dopo aver osservato i dettagli in primo piano della fotografia generazionale, è ora di dare un’occhiata allo sfondo. Negli stessi anni in cui i migliori imparavano a diventare competitivi per un sistema teatrale che non sembra intenzionato ad accoglierli, il tessuto delle nostre città è cambiato radicalmente. A Milano, Bologna, Roma sono stati a poco a poco sgomberati i centri sociali e gli spazi occupati. Talvolta gli occupanti sono stati gentilmente invitati a tornare dopo aver partecipato a un bando pubblico (è successo, in modi molto diversi, al Valle a Roma e a Macao a Milano). Gli spazi di creatività che si definivano attraverso un lessico legato all’oscurità – off, underground, cantine — sono stati resi trasparenti, cioè immancabilmente inquadrati e messi a norma. I luoghi della creatività fluida e disordinata, dove sono cresciuti e hanno avuto le prime possibilità molti artisti degli anni Novanta (Motus, Deflorian/Tagliarini, per fare solo alcuni dei molti nomi possibili) sono scomparsi, e al loro posto hanno fatto il loro ingresso le graduatorie, le assegnazioni, le call.
Sono molte le implicazioni di questa enorme trasformazione sociale e culturale; ma le conseguenze sono significative anche sotto il profilo del ricambio generazionale, perché si è di colpo inaridito l’humus dove germogliavano novità, eversioni, tentativi sperimentali. Gli effetti sono sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di guardare: la stagione dei gruppi e delle compagnie sembra irrimediabilmente tramontata; si sente parlare poco, pochissimo, di venti e di trentenni. Il Premio Scenario, da trent’anni impegnato nell’attività di identificazione e sostegno del nuovo, da qualche anno vede passare meteore dalla vita breve, o si trova a consacrare quasi ex post artisti già pienamente in attività (si veda, da ultimo, il caso di Una vera tragedia di Riccardo Favaro, già in produzione al Lac di Lugano mentre la giuria valutava i candidati). Con un singolare paradosso, l’istituzionalissima Biennale di Venezia è stata, in questo quadro, l’unica esperienza che ha dato da discutere sul tema generazionale: dall’articolato percorso di accompagnamento e produzione per i giovani registi, pensato e diretto da Antonio Latella, sono usciti spettacoli e nomi nuovi (tra questi: Leonardo Lidi, Giovanni Ortoleva, Leonardo Manzan). Peccato che – complice la pandemia ma non solo – nessuno degli spettacoli prodotti nell’alveo di Biennale abbia possibilità di trovare spazio in un mercato saturo e in un sistema distributivo al collasso.
Al tavolo degli adulti, insomma, non c’è posto: bisogna aspettare pazienti di invecchiare, e intanto farsi bastare quel tanto o quel poco che viene passato dal piatto altrui. Nel frattempo gli ex giovani, con i capelli ormai imbiancati dal tempo e dalla fatica, tengono occupato anche il tavolo dei bambini, accaparrandosi bandi e premi da “emergenti” e conquistando le pochissime finestre di programmazione disponibili. Secondo il principio della rana bollita di Noam Chomsky, due generazioni vengono tenute sott’acqua mentre la temperatura si alza. Si lasceranno cuocere a poco a poco o troveranno le forze per saltare via dalla pentola prima che sia troppo tardi?
Foto: Filipe Ferreira, Overload, Sotterraneo
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