Il caso del Teatri Kombëtar di Tirana

Tra lo sconcerto di molti il Teatri Kombëtar, ovvero il Teatro Nazionale d’Albania, è stato demolito lo scorso 17 maggio, in piena emergenza per il coronavirus. Al suo posto, per ora, un mucchio di macerie, rimosse le quali sarà realizzato – probabilmente nei tempi velocissimi a cui ci sta abituando Tirana – un complesso avveniristico a forma di “papillon”, ideato da uno studio di architetti danese. La vicenda del Teatro Nazionale, che ha incendiato gli animi della comunità artistica albanese, ha avuto un’eco anche in Italia, forse perché a costruire l’edificio nel 1939 fu l’architetto Giulio Bertè. La questione si intreccia con un complicato scenario di rinnovamento del centro cittadino di Tirana, a cavallo tra speculazione e necessaria rigenerazione urbana.

L’edificio che ospitava il Teatri Kombëtar è stato costruito per essere ciò che era, un teatro di primaria importanza nell’assetto urbano, e aveva una facciata ispirata all’opera di Giorgio De Chirico. Faceva parte del complesso del centro storico, realizzato durante l’occupazione fascista da architetti e urbanisti italiani di caratura internazionale come Gherardo Bosio, Armando Brasini, Vittorio Ballio Morpurgo. A dispetto del ruolo del fascismo italiano e delle sue mire espansioniste e colonialiste che portarono all’occupazione del Regno d’Albania, l’eredità architettonica razionalista non viene percepita con fastidio dalla popolazione della capitale, che tende a considerarla un patrimonio storico da valorizzare. In questo contesto, quando nel 2018 si cominciò a parlare di demolizione del teatro, la comunità degli artisti albanesi insorse e decise di mobilitarsi per impedire che venisse adottata questa soluzione. Ma cosa stava succedendo?

Il Teatri Kombëtar, in effetti, era in un pessimo stato di conservazione, dovuto in parte alla mancanza di manutenzione e in parte ai materiali “autarchici” usati in fase di realizzazione. Nessuno, nemmeno l’Alleanza per la difesa del Teatro – associazione nata dalla volontà di esponenti della società civile e della comunità artistica per preservare l’edificio – ha mai messo in discussione questo stato di cose. Ma sul “che fare” sono emerse le diverse visioni della città. C’è chi voleva restaurare il teatro, preservandolo come monumento, e chi invece, in primis il governo albanese guidato dal socialista Edi Rama, preferiva la demolizione e la ricostruzione ex novo di una sala moderna e più adatta allo spettacolo contemporaneo.

«In effetti non sarebbe stato possibile restaurare il teatro trasformandolo in una sala moderna» mi spiega Gentiola Madhi, una ricercatrice albanese che lavora in Italia e che si è occupata della vicenda per Osservatorio Balcani e Caucaso. «Ma secondo l’Alleanza per la difesa del Teatro si sarebbe potuto costruire un teatro completamente nuovo in un’altra zona del centro, poco distante da lì. Il boulevard che taglia il centro e arriva fino alla stazione non è mai stato completato. La parte finale è da tempo oggetto di un’idea di rigenerazione che dovrebbe accostare edifici moderni (si parla di una ‘Tirana tecnologica’) agli edifici storici di architettura razionalista. In quell’area sarebbe potuto sorgere un teatro moderno perfettamente inserito nel tessuto urbano che si sta realizzando, preservando invece il Teatro Nazionale come sala storica, magari per eventi più piccoli. E invece la scelta è ricaduta sulla demolizione».

Gentiola ricostruisce le tappe forzate con cui si è arrivati a questa conclusione della vicenda. Dopo l’annuncio nel 2018 del progetto disegnato dallo studio danese Bjarke Ingels Group e affidato alla locale impresa edile Fusha, il 2019 ha visto l’occupazione permanente del teatro da parte della comunità artistica al fine di impedirne la demolizione. Le proteste hanno avuto il loro effetto, almeno all’inizio, perché il progetto originario che prevedeva la costruzione di diverse torri ipermoderne che avrebbero ospitato uffici e locali (questo perché l’impresa ha la possibilità di costruire anche su terreno adiacente a quello che ospitava il teatro) è stato modificato in favore di un progetto a forma di “papillon” dedicato solo al centro culturale che dovrebbe ospitare il teatro.

Non passa comunque inosservata l’impronta speculativa del progetto, che giustifica e sostiene la realizzazione di una nuova sala attraverso la contemporanea realizzazione di progetti dal risvolto commerciale. Non si tratta, dunque, di un’autentica opera di rigenerazione della città, cosa piuttosto in linea con la storia recente di Tirana: la capitale albanese sta cambiando faccia a un ritmo frenetico e torri dalla forma avveniristica sorgono al posto di vecchi palazzi di edilizia comunista nel giro di pochi mesi. Tornare dopo qualche anno nella capitale albanese, di questi tempi, significa in pratica non riconoscerla più.

Gentiola sintetizza il pensiero dell’Alleanza per la difesa del Teatro secondo cui difendere il Teatro Nazionale non significa essere contro la rigenerazione di Tirana, significa piuttosto adottare un criterio per portare avanti un’idea di città in grado di preservare la memoria degli edifici storici e di fare spazio alla modernità arginando la speculazione. «Qualcuno ha fatto notare che le stesse persone che oggi difendevano il teatro, dieci anni fa, quando si parlava di abbattere la Piramide (ovvero l’edificio destinato a diventare il mausoleo di Enver Hoxha, cosa che però non accadde mai) non avevano nulla da ridire. La replica è stata che quell’edificio, costruito nel 1987 e già fatiscente, è troppo recente per far parte della memoria storica della città».

In realtà le polemiche sull’eredità “fascista” e quella “comunista” dell’edilizia di Tirana sembrano essere dei pretesti tirati un po’ per la giacca a seconda delle convenienze delle operazioni in campo, perché ricostruire la capitale di un paese nel cuore dell’Europa, che prima o poi sarà parte dell’Unione, è un bel business. Lo dimostra il cambio di atteggiamento dello stesso Edi Rama, sindaco socialista della capitale dal 2000, il cui nome era all’epoca legato al rilancio della città. Rama, che fu anche ministro della Cultura, era tra i sostenitori di un’idea di città che preservasse i palazzi storici. Oggi, il governo da lui guidato è stato uno dei principali fautori della demolizione mentre contrario a livello istituzionale è stato l’unico consigliere comunale di Tirana dell’opposizione: Fabian Topollaj, del Partito della Convinzione Democratica (un piccolo partito nato dalla scissione con il Partito Democratico di Sali Berisha, il quale non è rappresentato in consiglio comunale perché nell’ultima tornata elettorale ha scelto di disertare le elezioni).

Che la demolizione presenti zone d’ombra è evidente anche dal fatto che sotto i colpi delle ruspe è finito anche il Teatri Kombëtar Eksperimental, la porzione di edificio dedicato al teatro sperimentale, che era stato restaurato nel 2014. L’abbattimento della sala appena rinnovata non è stato granché riportato dai media internazionali ma da solo basta a lasciar intravedere la portata speculativa dell’operazione. Rando Devole, sociologo e giornalista, in un lungo e accorato articolo apparso sulla rivista “Confronti” ha ricostruito l’accaduto, mettendo in fila le varie posizioni attorno alla demolizione del teatro, esercizio che rende lampante come questa vicenda abbia sollevato nel paese dell’aquila a due teste un problema di democrazia. A partire dalla scelta di distruggere l’edificio in un orario insolito, verso le quattro e trenta del mattino, quando nessuno poteva guardare o mobilitarsi, mettendo persino a rischio l’incolumità di alcuni degli occupanti – prontamente sgomberati – che negli ultimi mesi avevano continuato la protesta pur rispettando il distanziamento fisico imposto dalle misure anti-covid. Anche la scelta di compiere un atto così controverso proprio durante il lockdown, che l’Albania ha adottato al pari degli altri paesi nel mondo, la dice lunga sulla voglia di eludere il confronto con chi non era d’accordo con questa soluzione. Un fronte, quest’ultimo, che nel tempo si è allargato dalla comunità artistica alla società civile, con forti prese di posizioni anche di associazioni come quella degli Architetti d’Albania e come quella di Confindustria Albania, che rappresenta le imprese italiane presenti nel paese e che per bocca del presidente Sergio Fontana ha stigmatizzato in modo netto l’accaduto: «È come se per costruire un teatro più capiente, coperto e confortevole, si decidesse di abbattere l’Arena di Verona o il Colosseo».

Persino il capo di Stato, Ilir Meta, ha tentato un ricorso alla Consulta che non ha dato esito per motivi tecnici. Mentre l’opposizione di centrodestra – stando a quanto riporta il “Corriere della Sera” in un articolo di Leonard Berberi pubblicato il 20 maggio – accusa il governo socialista di avere interessi mafiosi. Dal canto suo il premier Edi Rama, dopo il polverone internazionale, ha provato a spiegare le sue motivazioni con un intervento sul quotidiano francese “Le Monde”, in cui ribadiva le questioni irrisolvibili secondo il governo: struttura fatiscente, materiali di costruzione scadenti, utilità del nuovo progetto, il tutto aggravato da una matrice simbolica e cioè il fatto che il teatro fu costruito dalle truppe d’occupazione italiane come luogo di intrattenimento. Rando Devole, tuttavia, fa notare come l’intervento non abbia convinto gli osservatori internazionali, critici rispetto alla soluzione adottata. In effetti in questa storia tutto sembra apparire rovesciato, a partire dalle cortine fumogene delle motivazioni ideologiche (è giusto abbattere un edificio storico perché appartiene al periodo fascista? E cosa fare allora dell’edilizia comunista?) fino agli scambi di accuse sul rifiuto di un’opera che dovrebbe portare Tirana nel futuro (ma nessuno era contrario alla costruzione di un nuovo teatro: la questione riguardava la salvaguardia di quello storico).

L’intreccio ingarbugliato di retoriche e posizioni sono il termometro di un clima rovente, che sulla questione del Teatri Kombëtar ha visto sorgere una profonda spaccatura tra società civile e istituzioni. Proprio attorno alle vicende di un teatro, luogo che storicamente rappresenta l’agorà. Restano dunque i dubbi sulla portata antidemocratica dell’operazione, alla quale i rappresentanti delle istituzioni, secondo Devole, hanno replicato con un secco e poco argomentativo «chi vince le elezioni governa e fa le scelte». Così è, se non fosse che lo stato di salute delle democrazie passa anche dallo stato di salute delle minoranze e, ancora di più, dal dialogo con la società civile che è un insieme difficilmente riconducibile alle logiche dei partiti. E resta anche l’amarezza per un pezzo di città che scompare, sintetizzato dalla dichiarazione degli artisti delle compagnie Fabbrica Wojtyla e Compagnia della Città: «Abbattere il Teatri Kombëtar a Tirana è stato come se a Napoli abbattessero il San Carlo per costruirne uno più moderno e imponente, oppure a Milano La Scala per far posto a un avveniristico super mega Teatro, o L’Opéra National a Parigi, Il Metropolitan a New York, il Bol’šhoj a Mosca, La Royal Opera House a Londra, il teatro La Fenice a Venezia. Si dirà sorridendo che il Teatri Kombëtar di Tirana non era il San Carlo… sì, ma anche il San Carlo non è La Scala e La Scala non è l’Opéra National che non è il Metropolitan che non è il Bol’šhoj che a sua volta non è la Royal Opera House che non è La Fenice. E questo perché? Perché ogni paese ha il suo Teatro».

 

Foto: Teatri Kombëtar di Tirana, www.a2news.com, 2020

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