Amleto (che poi sarei io)
Un palco, delle sedie bianche e Amleto. Sono questi gli unici elementi di cui si serve Michele Sinisi nella sua messinscena della celebre opera di Shakespeare. Sul palco c’è solo il protagonista a dare voce e consistenza alle figure evanescenti degli altri personaggi, la cui presenza è segnalata unicamente dalle scritte dei loro nomi sulle sedie. Così ad Amleto basta occupare una sedia per impersonare qualcun altro pur rimanendo sempre se stesso. Non a caso ripete “Amleto, che poi sarei io” quando gli altri personaggi a cui dà voce lo chiamano o parlano di lui. E sono sempre queste parole a ricordarci che vediamo tutti i personaggi attraverso gli occhi di Amleto. Quello che dicono e il modo in cui si comportano rivelano quel che Amleto pensa di loro. Così notiamo che il re non abbandona mai il trono, ma la posizione con cui lo occupa sembra innaturale, sbagliata, forse perché ottenuta con la violenza. Inoltre parla sempre a occhi chiusi tendendo una mano sporca di rosso, quasi a simboleggiare la sconsideratezza con cui ha compiuto il fratricidio. Nemmeno Polonio sfugge al severo giudizio del protagonista, che recita con voce stridula e petulante le frasi adulatorie rivolte dal consigliere alla coppia reale. Il confronto con i personaggi è quindi ridotto a un soliloquio spacciato per dialogo, truccato dai filtri che Amleto applica a tutti i personaggi. Così il protagonista si presenta quasi come un burattinaio, che, nel suo stato di sofferenza, interpella gli altri. Ma è chiaro che la soluzione del suo dilemma dipende interamente da lui. Al termine dello spettacolo, Sinisi-Amleto poggia la testa sul cuscino come per addormentarsi. Non è chiaro se sia stato colpito dalla stoccata mortale di Laerte ma sembra finalmente libero dai suoi fantasmi, senza rimpianti. In definitiva il suo soliloquio, benché suggerisca uno stato di confusione e, a tratti, di pazzia, si rivela una riflessione efficace, che riporta la tanto agognata quiete nell’animo del protagonista.