Tre cartoline da Buenos Aires
1. La cannuccia metallica
Alla fine di aprile dello scorso anno, diciamo appena all’inizio di tutto questo, ho scritto per il giornale «Le Monde» un’accesa arringa dove tessevo le lodi del teatro come contagio, sostenendo che la parola “contagio” fosse esattamente quella che avevo così tante volte utilizzato per misurare gli accadimenti della scena. Contagio era per me, ed è ancora così, una parola più precisa che comunicazione, stimolazione o trasmissione del sapere. Un autore e degli attori, un regista e degli artisti sono ammalati di una qualche pulsione irrefrenabile, di intuizioni ancora senza nome, di sintomi innominati e si trovano per trasmetterli ad altri. Questa forma di contagio era desiderata; gli spettatori addirittura pagavano per contagiarsi di qualcosa di sconosciuto e per il quale non ci sarebbe sicuramente stato vaccino. Ora però il contagio non è più metaforico e i teatri sono stati chiusi.
Ed è accaduto in tutto il mondo. Siccome si tratta di una situazione provvisoria non osiamo affrontare il problema con una risposta definitiva, perché è comunque più saggio e salutare aspettare, guadagnare in prospettiva. I teatranti si sono riconvertiti, anche se in Argentina erano già riconvertiti da molto prima: pochissimi, infatti, arrivano al teatro e riescono a camparci. Una situazione di cui gli Stati si approfittano, quando ci lasciano ai margini della strada salvando gli altri settori dell’economia formale e informale. Il nostro certificato di morte è stato scritto a partire dal Medioevo: siamo stati dichiarati non essenziali. Sono gli stessi Stati che, in altre circostanze, non hanno perso tempo salvando banche e usurai, per esempio.
Fra queste riflessioni dell’aprile 2020 mi sono trovato a menzionare il caso di un’altra estinzione prossima, quella delle cannucce, oggetti che in spagnolo hanno molti nomi sofisticati e coloriti, come se nessuno prendesse sul serio la loro funzione universale: totopos, sorbetes, sorbetos, canutos, absorbentes, bombillas, cañitas, pitillos, carrizos, calimetes, si tratta insomma dell’estinzione di quella cosa alla quale, come si vede, non siamo stati nemmeno capaci di dare un nome che sia quello una volta per tutte. Le cannucce erano un agente contaminante di plastica e, senza chiedere nulla a chi le fabbricava, sono state proibite in tutto il mondo. La mutevolezza del nome (come quella di un virus messo alle strette) è probabilmente dovuta al fatto che non è mai stato necessario stabilire che cosa fossero davvero: una frivolezza per succhiare qualcosa che poteva essere succhiato molto più facilmente in altro modo. Immagino che le fabbriche di cannucce: a) abbiano chiuso o b) si siano riconvertite o c) abbiano iniziato a fabbricarle di cera o di carta. A quanto pare, le cannucce di plastica non facevano altro che infilarsi nel ventre di delfini o pinguini morti. Erano così piccole che era impossibile riciclarle: un infimo e immediato piacere che diventa la spazzatura del futuro, della quale possiamo fare a meno.
Ora abbiamo dovuto fare a meno (e per un tempo preoccupante) non solo delle cannucce ma anche del teatro: dramma, post-dramma, opera, operetta, varietà, circo, danza, teatro-danza, music-hall, mimo, stand-up, karaoke, performance, sketch, cantastorie, biodramma, microteatro, micro-bio-teatro… vedete, ci succede più o meno la stessa cosa che con le cannucce. Mi si obietterà, e con qualche ragione, che nel caso dei sorbetes i nomi sono centinaia ma l’oggetto è lo stesso. Contro-obietto: la virtualità specifica del teatro è una sola. E ha a che fare con il convivio, con la compresenza dei corpi nello stesso tempo e spazio, fatto dal quale discendono una serie di tecniche specifiche (legate all’aspettativa di un oggetto che viene osservato in quel momento) e un legame irripetibile. Un legame proibitivo.
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