Sonora Desert di Muta IMAGO
Sembra che Sonora Desert, ultimo lavoro di Muta Imago ispirato a uno dei più grandi deserti americani, non sia uno spettacolo.
Si presenta come «un’esperienza» o un «esperimento», tra installazione e performance. Qualcosa del genere si legge anche nelle (poche) testimonianze critiche diffuse fra il debutto a ottobre 2020, al Festival Aperto di Reggio Emilia, e la ripresa, dopo il nuovo lockdown, nel luglio ‘21 a Santarcangelo.
Non c’è una storia, un dramma in senso stretto, un’azione rappresentata: gli spettatori assistono a un fluire di suoni, luci e colori; mancano anche gli attori in carne e ossa, in questo lavoro immersivo e radicalmente partecipativo, tutto incentrato sulla percezione del pubblico. Senza apparentemente trama né performer, Sonora Desert è un viaggio; o meglio un invito al viaggio, fisico e mentale, con tanto di riferimenti espliciti alla sperimentazione degli stati di coscienza alterati negli anni Sessanta e alla correlata letteratura scientifica, poetica, narrativa.
Ciascuno, accomodato in un’amaca, con protezioni per gli occhi e per le orecchie, esperisce per conto proprio la drammaturgia di vibrazioni sonore, luminose, cromatiche di cui è costituito il lavoro. Non accade altro. Fatto salvo che prima e dopo ci sono anche dei momenti in cui gli spettatori stanno insieme: all’inizio, nell’esplorazione di un’installazione in cui sono esposte le pagine di quel che sembra un diario di viaggio, intorno alla ricostruzione di una dream machine, l’unica opera che si può vedere a occhi chiusi; e, poi, alla fine, una volta terminata l’azione, quando ci attende uno spazio in cui intrattenersi, delicatissimo, popolato di libri, cuscini, chiacchiere sottovoce e una tazza di tè.
Descrivere ciò che sta in mezzo – il nocciolo di Sonora Desert – non si può. È qualcosa di troppo personale, intimo, soggettivo. Ed è qualcosa che mi interessa davvero. Perché, con le sue scelte di forma e di linguaggio, varie volte Muta Imago – come altre compagnie che dagli anni Zero hanno lavorato in direzioni diverse ma con esiti affini – ha messo in crisi la possibilità di un approccio critico al teatro. Ma non è vero che Sonora Desert non sia uno spettacolo. Anzi, lo è moltissimo, anche più di tanti altri che lo sembrano maggiormente.
La citazione di Jean Baudrillard riportata in esergo alla presentazione del lavoro parla del deserto come «spazio assoluto», «vuoto di senso», «assenza di socialità e di relazioni». Al di là del richiamo, non si sa quanto programmato con esperienze recenti nel mondo pandemico, è questo che viene fatto al teatro durante e attraverso questo spettacolo. Ma non si tratta solo di un confronto – comunque raro – con un grado zero dell’arte scenica, che viene proposta nelle sue lingue espressive distintive: niente testo, parola, messaggi da trasmettere e decodificare in senso convenzionale; “solo” luce, colore, suono, sensazioni, e ciò che accade nella mente e nel corpo di ciascuno di noi. Il punto non è neanche un contatto inedito con una scena “disumanizzata”, da cui è stato espulso ogni residuo di agire attoriale, come ambivano le utopie di tanti maestri del primo Novecento.
Sono anni che la compagnia lavora, non solo sulla dimensione della “sparizione”, ma, come dicono, anche sulla manipolazione del tempo: quello che forse si può considerare la materia distintiva dell’esperienza performativa, più ancora della relazione fra attori e spettatori. Nel senso che è forse al livello sia intimo sia comune della condivisione di un tempo collettivo, che si situa la peculiarità dell’incontro fra i due mondi della realtà e della scena.
La composizione drammaturgica concepita come trattamento della dimensione temporale – con tutte le ricadute in termini di suono, luce, immagine etc. – consente infatti di focalizzare uno degli elementi di base del teatro: il contatto con l’altro, in una maniera in cui l’alterità riacquisisce la molteplicità di sfaccettature che le sono proprie. La questione non si declina solo, appunto, nei termini della relazione fra attore e pubblico, ma è concepita in un senso talmente ampio da poter arrivare ad abbracciare addirittura noi stessi. L’occasione d’incontro che si dà a teatro, infatti, è anche fra spettatori: in riferimento a quella moltitudine di estranei che, pur con tutte le differenze interne, decide di riunirsi intorno all’evento performativo e farsi – seppur temporaneamente – comunità. La prossimità silenziosa, concentrata, a cui invita Sonora Desert fa emergere radicalmente l’importanza di questo tipo di intrecci, che spesso magari diamo per scontato; ed è una sensazione davvero molto forte, appena finito un lockdown.
Ma a teatro non c’è solo l’altro in platea, oltre che l’altro in scena: c’è anche l’alterità che abita sempre dentro di noi, che raramente si riesce a frequentare nella realtà quotidiana e con cui quest’opera – solo apparentemente anomala – invita a metterci in contatto profondo. Oltre che di una curatissima composizione di suoni, luci, colori, ciò di cui si fa esperienza in questo lavoro è una drammaturgia di sensazioni, emozioni, pensieri, all’interno della propria interiorità: un senso di incertezza rispetto a ciò che sta per accadere, il misto di curiosità e paura, il fiorire dell’inatteso, la dialettica fra istinto alla razionalizzazione e all’abbandono, fra il tentativo di controllo sull’esperienza e la tentazione di lasciarsi andare a sé e all’altro.
Sono cose che accadono sempre di fronte a qualunque spettacolo. Costituiscono il suo mistero. Solo che magari non ci si pensa spesso, e il lavoro di Muta Imago ha il merito di ricordarcelo. Del resto, chiederci di guardare il teatro con occhi diversi è ciò che questa compagnia ha cercato di fare fin dagli esordi.
In realtà, poi, ovviamente non è neanche così importante stabilire se Sonora Desert sia uno spettacolo o no, cioè quanto rientri o meno in determinate categorie estetiche che ambiscono a definire le forme artistiche e in special modo i loro confini. È (dovrebbe essere) un tema superato. L’importante è la capacità di spostarti, l’ambizione a condurre il pubblico e il teatro altrove, in uno stato liminale che, per come l’ha vissuto chi scrive, fa stare bene. Soprattutto nel momento della cosiddetta “ripartenza” (anche teatrale), che pure quest’anno ha coinciso con l’accelerazione travolgente propria della stagione estiva dei festival – da zero a cento, nel giro di poche ore.
In questo contesto, Sonora Desert consente un momento di raccoglimento in solitaria, di intimità profonda e di meraviglia. È un’esperienza di quiete assoluta (come forse un viaggio nel deserto); infonde alla pratica del teatro la sfumatura di un possibile prendersi cura gli uni degli altri e suggerisce un senso di protezione. Al tempo stesso, ci mette a repentaglio, c’è una minaccia implicita: non per spaventare nessuno, ma è uno spettacolo che può far paura (non solo, per esempio, alla pratica critica). Perché ci lascia soli di fronte all’evento scenico, senza nessun appiglio, perché non sappiamo cosa succederà, perché ci sentiamo a rischio nel nostro statuto convenzionale di spettatori, perché la sublimazione della scomparsa, soprattutto di questi tempi, è sempre dietro l’angolo... appunto, tutte sensazioni che in teoria dovrebbe provocare qualsiasi spettacolo, ma che non capita spesso di provare a teatro. Non sono questioni legate soltanto per omologia o per contrasto all’emergenza sanitaria in corso: all’esperienza di un grado zero, anche relazionale e fisico, durante i lockdown, e poi all’esplosione delle riaperture che tutto travolge e, bene o male, rimuove. Sonora Desert in verità evidenzia un’altra sostanza dell’esperienza teatrale che oggi è interessante riscoprire: la potenza dell’immaginazione. Lo spettacolo spinge lo spettatore, seguendo una partitura compositiva estremamente precisa, a crearsi un proprio percorso all’interno dell’opera, suggerendo che la messinscena accade prima di tutto e soprattutto all’interno della nostra mente. Anche questo, ovviamente, succede sempre. Ma dopo tanti anni di cosiddetto reality trend, “fame di realtà”, neorealismo – in teatro, cinema, filosofia, letteratura, tv, e così via – trovare uno spazio aperto, diverso, libero (e perciò rischioso), fare un’esperienza che invita a pensare, non al mondo com’è, ma a ciò che ancora non c’è, è un esercizio rigenerante e prezioso. Per la singola spettatrice, limitatamente alla percezione soggettiva di chi scrive, ma chissà, magari anche per qualcun altro e forse addirittura per il teatro stesso.
Roberta Ferraresi
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