Radiodramma
Richard Hughes ha appena ventitré anni, quando viene chiamato dalla neonata BBC a realizzare un’opera nuova per la radio: ‹‹tutto si deve risolvere nel suono, così come i film si risolvono nell’immagine››.
Al tempo il cinema è ancora muto e la radio nasce cieca. Danger di Hughes va in onda il 15 gennaio 1924 ed è il primo radio play della storia, preceduto da avvertenze per gli ascoltatori: allontanare i bambini facilmente impressionabili e chiudere gli occhi. Il radiodramma nasce nel buio di una miniera, chiusa da una frana improvvisa, mentre lo sgorgare di una falda acquifera sembra lasciare poche speranze ai tre protagonisti della vicenda.
Poi arrivano la Germania, la Francia e infine l’Italia. Ogni paese s’inventa un nome diverso per definire un genere artistico che vuole essere nuovo – come la radio appena nata – e che cerca la sua forma: teatro dell’aria, poesia dello spazio, teatro per ciechi… Alla radio niente si vede e tutto si ascolta e, se il non vedere è un limite, questo non dovrebbe essere interpretato come un’amputazione. L’opera radiofonica di quel limite ‹‹fa la sua forma››, spiega Savinio alla fine degli anni Quaranta.
In Italia cominciano i commediografi a scrivere per la radio, ma i risultati paiono deludenti: troppe lungaggini, schemi ancora molto teatrali. Poi, già alla fine degli anni Trenta, una nuova generazione capisce le potenzialità e l’originalità del mezzo e dà una spinta decisiva al radiodramma e alla rivista radiofonica, che fino agli anni Cinquanta spopolano nelle case degli italiani: Giannini, Nizza e Morbelli, Fellini, Sordi, Valeri… e tra gli scrittori noti Savinio, Pratolini, Gadda… Fino agli anni Sessanta la produzione di radiodrammi – cioè di opere pensate appositamente per la radio e che esaltano le caratteristiche specifiche del mezzo – è enorme: a volte anche un radiodramma a settimana e le sedi Rai di Firenze, Napoli, Roma, Torino, Milano, Trieste si attrezzano con compagnie stabili.
La qualità è sempre alta, anche quando i temi e i testi appaiono più di costume o di semplice intrattenimento. La parola, che deve essere chiara e comprensibile, è assoluta protagonista. Così, prima del maestro Manzi e della televisione, un intero popolo viene allenato all’italiano e alle dizioni corrette rimanendo incollato alla radio. Con l’arrivo della televisione molte cose naturalmente cambiano, ma la radio resiste e fino a metà degli anni Settanta il radiodramma non perde smalto, al contrario acquista ancor più qualità, grazie all’introduzione del nastro magnetico, che permette riprese all’aperto, montaggi sofisticati, interventi di postproduzione, e grazie al contributo di scrittori di rilievo come Levi e Manganelli e a una generazione innovativa di registi (Camilleri, Quartucci, Bandini, Pressburger, Bene). I radiodrammi acquistano qualità, perdono però pubblico.
Cultura e intrattenimento sono strade che cominciano a separarsi, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, quando il ruolo della televisione è quasi dittatoriale. Eppure la creazione radiofonica continua a sopravvivere in nicchie di qualità (come Audiobox, spazio multicodice di Fava) o in stagioni di rinascita che sembrano emergere quasi in modo carsico (i progetti di Ronconi nel 1997, di Quadri nel 2000, di Martone nel 2002, di Antonelli e Pavolini nel 2002, di Audino e Palmieri nel 2011). Con la rivoluzione digitale e l’affermarsi del podcast, il radiodramma sembrerebbe poter trovare oggi anche nuove forme.
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La redazione consiglia
Per approfondire, ascolta Bilancio di una vita, storico radiodramma di Heinrich Böll (traduzione italiana Italo Alighiero Chiusano, regia Nino Meloni) andato in onda il 5 marzo 1960, e L'arte invisibile, il nuovo ciclo di radiodrammi, melo-radio e gallerie di varia umanità a cura di Rodolfo Sacchettini e prodotto dal Teatro Metastasio in collaborazione con Rete Toscana Classica. Buon ascolto!
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