Lettera all'Italia

Si prova un certo piacere, all’inizio, nel poter cam­minare da soli a Firenze, Prato, Venezia, Bologna, Napoli. Poi, però, si co­mincia a trovarlo impressionante, e profondamente angosciante. Una sera ho visto due cigni in un canale a Vene­zia e una sera davanti a Santa Croce a Firenze mi sono imbattuto in un cin­ghiale. Indubbiamente c’era qualcosa di bello in quei due incontri, ma allo stes­so tempo c’era qualcosa di un po’ spa­ventoso. Durante questo tour italiano ho capito che le città svuotate della gente sono in definitiva una cosa molto triste. La cosa più distopica che ho vis­suto? In un ristorante a Potenza abbia­mo dovuto mangiare in tavoli dove eravamo tutti separati da un vetro. È un tempo strano che interroga il teatro e il suo ruolo: siamo essenziali? C’è bisogno di noi?

Io preferisco dire che né io né il mio lavoro siamo essenziali. Non mi piace l’idea di essenzialità. Ciò che è es­senziale finisce sempre per diventare qualcosa di necessario, e quindi di ineluttabile. Il teatro è troppo visibi­le per essere qualcosa di essenziale. Questo non significa che i governi non debbano trovare urgentemente delle politiche di sostegno al settore teatrale, che sta soffrendo molto per questa cri­si. Ma non credo che debbano aiutarci perché siamo essenziali, ma per la sem­plice ragione che siamo un settore di lavoratori molto colpiti e che già face­vano i conti con una grande precarietà. L’aiuto dovrebbe venirci per un patto sociale, non perché siamo essenziali.

Ma torniamo all’Italia. Ho un debole per il pubblico italiano: ti aspetta fuori dal teatro per parlarti, ti scrive lettere, ti contatta attraverso i social media, ti manda dolci a teatro o ti invia fiori in albergo. E trovo tutto questo molto tenero e commovente. È un pubblico molto caldo, molto generoso, molto gentile. Sono molto grato. A Firenze c’è una spettatrice che ogni volta che viene a vedere un mio spettacolo mi porta sempre un tiramisù in regalo. Questo è qualcosa di straordinario nel mondo di oggi: qualcuno che cucina per te e ti porta ciò che ha fatto con le sue mani. Ho avuto l’opportunità di incontrare più volte gli spettatori in dibattiti o incontri dopo gli spettacoli e ho sempre avuto a che fare con un pubblico intelligente, curioso, rispet­toso e sensibile. Un altro elemento che mi colpisce dell’Italia e del suo ambiente teatrale è che nonostante le differenze geografiche, culturali e sociopolitiche tra Nord, Centro e Sud, ci sono due cose che uniscono tutti. Da un lato, la capacità di lavoro è straordinaria e lo posso attestare: la professionalità che ho trovato in tutta Italia è di un rigore, una serietà e una solidità ammirevoli. Quando si lavora in Italia si capisce perfettamente che è un paese che è stato fatto dai lavora­tori. D’altro canto mi colpisce il modo in cui la lingua unifica tutto questo paese, che è così diverso da una regio­ne all’altra. È un’esperienza straordi­naria: la lingua vince sulla geografia.

Tutta la cultura italiana ha fatto parte della mia educazione fin da bambino. Leopardi è uno dei miei poeti prefe­riti. Con Giotto ho aperto gli occhi per la prima volta. Anna Magnani mi ha fatto piangere. Pasolini ha costru­ito l’erotismo nella mia adolescenza. Con Caravaggio ho imparato cos’è il desiderio, con Bernini l’estasi e con Visconti la morte. Quando ho letto Dante ho voluto impararlo a memoria per averlo sempre con me. Goldoni mi ha insegnato che nella leggerezza c’è sempre una verità e Pirandello mi ha fatto capire cosa fosse un teatro dentro. Devo a Mantegna il senso del­la messa in scena e a Fra Angelico la semplicità della storia. Ho imparato anche leggendo Machiavelli, Petrarca, Eco, Agamben e Morante. In casa di mia nonna paterna, che era una di­scendente diretta di italiani, si parlava sempre italiano e ogni volta che le chiedevo perché dovevo parlare italia­no, lei mi diceva: «Perché tutto viene da lì». Ora da adulto mi rendo conto che aveva ragione.

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