Le cose che contano davvero

CONVERSAZIONE CON EMANUELE TREVI

Tutti noi, di fronte a condizioni ed eventi eccezionali, siamo portati a cercare nel passato tracce più o meno latenti dei nuovi fenomeni. E le troviamo, perché noi percepiamo l’esistenza costringendo la molteplicità delle cose dentro un sistema di analogie. Per esempio la cosa che ho più sentito dire dagli scrittori di cui sono amico suona più o meno così: «in fondo, noi già vivevamo in una condizione di lockdown», e in realtà la scrittura esige un certo grado di isolamento, una specie di cattività felice e liberamente scelta. Io appartengo alla razza di quelli che escono ogni sera, casa mia è sempre aperta, per età e pigrizia non comunico con i social, vado molto in giro perché fare lezioni e conferenze e presentazioni è il mio mestiere. Quindi la cattività non la sentivo molto prima, di tutto questo orribile casino personalmente tendo a percepire più la novità che altro, ma immagino siano cose che dipendono dalla vita che facevi prima.

A teatro la situazione è abbastanza scioccante. A novembre 2019 c’era stata la prima a Roma dello spettacolo su Furore di Steinbeck che ho scritto per Massimo Popolizio, la storia di quello spettacolo sarebbe stata bellissima nei mesi successivi…e tutto è finito come milioni di altre cose su cui tutti avevamo buttato il sangue. E io sono fortunato perché faccio un altro lavoro, ma tutto il nostro mondo è entrato in uno stato di disperazione, c’è poco da dire. Io tendo a scansare l’aggressività, il tono del risentimento, la ricerca di colpevoli. Quindi dirò che se un topo in gabbia morde ha tutte le sue ragioni, lo capisco, ma non deve stare lì a sprecare energia: non serve a nulla.

Mi dispiace sempre quando vedo una persona giovane che butta il suo tempo nel mondo delle opinioni, che è un mondo totalmente irreale, un cattivo infinito; invece l’unica via di salvezza è sempre stata proiettare sul futuro una grande idea.

Questo è un lavoro durissimo, che esige una devozione totale che agli altri potrà sembrare una follia. Altrimenti non si ottiene nulla: per spremere una goccia di talento al giorno da se stessi bisogna lavorare oltre il limite del pensabile. Per questo bisogna assolutamente puntare sulla qualità dell’insegnamento, all’individuazione di personalità precoci, e infine rischiare caricando grandi carichi di responsabilità su spalle ancora inesperte. Non ci sono dubbi, e ogni volta che prevale questa filosofia ci sono dei frutti, in tutte le arti. E nello stesso tempo, bisogna essere molto chiari, quando si trasmettono delle esperienze: l’apprendimento è duro, a volte spietato, e il suo presupposto è che tutta la vita deve ruotare su quel perno. Questa circostanza crea una specie di selezione darwiniana che è sicuramente una specie di «sbarramento» contro il quale non si può fare nulla. Io quando insegno a persone più giovani ricordo sempre quel pensiero di Kafka che dice: il vero significato di «conosci te stesso» è «distruggiti».

La questione di come le arti assorbiranno questo momento è ovviamente molto aperta, e molto empirica. Non bisogna mai scordarsi che le espressioni più efficaci di una data epoca sono sempre oblique. Non credo che gli «intellettuali» abbiano un grande ruolo da ricoprire in questo paesaggio di rovine; ho invece una grandissima fede negli artisti, nelle persone capaci di far sì che l’inaspettato irrompa nel campo dell’esperienza. Come quando Bob Dylan, durante le prime settimane della pandemia, in un mondo orbato di qualunque speranza credibile, ha messo in rete gratuitamente due bellissimi pezzi nuovi. Sono queste le cose che contano davvero, alla fine dei conti. Non penso che i personaggi dei romanzi del prossimo futuro dovranno muoversi con la mascherina o parlare del vaccino che nel frattempo si saranno fatti, la questione è più profonda e riguarda i limiti dell’identità. A mio parere (molto opinabile) la metafora fondamentale, la più illuminante, è quella del «gregge», usata in relazione all’immunità. Nel concetto di «gregge» e in quello di «pecora», applicati all’umanità c’era una forte connotazione negativa, ora invece il «gregge» è qualcosa che salva, che rende possibile la vita individuale. Accanto a chi si salva, c’è sempre chi resta indietro: mai perdere mai di vista chi non ce la fa, perché se la realtà fosse solo il frutto degli sforzi di chi ce l’ha fatta sarebbe soffocante come 1984 di Orwell.

 

Foto: Emanuele Trevi.

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Autore

Redazione

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