Gli spettatori
Nel V secolo a.C. eravamo seduti all’aria aperta in teatri di pietra, ascoltavamo e guardavamo attori interpretare storie con protagonisti eroi e condottieri; potevamo partecipare ai cori, la mimesi era un concetto immersivo, “incarnato” e politico, andare a teatro e votare ai concorsi drammatici era uno strumento di cittadinanza.
Lungo i secoli del Medioevo numerose sono state le forme di teatralità diffusa e popolare come drammi liturgici, feste dei folli, tornei, esibizioni di giullari, in cui «lo spettacolo è più un atto comunicativo in cui riconoscersi che un atto estetico a cui assistere» (F. Fiaschini). Noi spettatori spesso ci spostavamo lungo diverse “stazioni drammatiche” e sfumava il confine fra chi guardava ed era guardato. Nell’umanesimo potevamo osservare da una prospettiva privilegiata, come il principe: mentre in pittura si inventa la prospettiva il teatro si “reinventa” come luogo da guardare, seduti distanti, anche grazie alla nascita dei primi teatri fissi (a fine ‘500 gli Olimpici di Vicenza e Sabbioneta, prototipi dei teatri “all’italiana”); gradualmente e fino al ‘700 la funzione sociale delle piazze si sposta in teatro, si ribadisce l’egemonia dello spettatore in uno «‘spazio chiuso’ che serve a moltiplicare e fare esplodere il gioco del vedere e del farsi vedere fra gli abitanti-spettatori» (P. Giacchè).
Qui si origina anche il dibattito attorno alla possibilità che il teatro educhi, elevi o al contrario meramente soddisfi i nostri gusti e appetiti, arrivando alle condanne puritane e rousseauiane. Noi siamo quelli da solleticare e divertire, perché al pubblico «è giusto parlare da ignorante, pur di dargli gusto» (Lope de Vega). Sia come sia, veniamo fatti accomodare in comode platee al buio nei drammi borghesi fra ‘700 e ‘800 ma anche nelle commedie di Goldoni e Molière: vediamo non visti, protetti da una spessa quarta parete spiamo attori che tratteggiano le nostre inconfessate pulsioni, i nostri fallimenti sociali, le nostre ansie di accumulo di affetti e danari. Poi col Novecento tutto cambia, è un secolo che decreta la «messa in discussione dello spettatore e degli statuti tradizionali della ricezione teatrale». Lo scrive De Marinis parlando di spettatori partecipanti, quando veniamo coinvolti dentro ai processi, di spettatori testimoni, se osserviamo percorsi senza l’ansia di esiti spettacolari, e di spettatori competenti, quando con Brecht pratichiamo sia la distanza sia il coinvolgimento emotivo. Un secolo che ci ha insegnato a comporre i due poli della visione che investe i sensi e il ragionamento critico, uno spettatore «scosso e sconvolto dal dinamismo interno dello spettacolo» (Artaud) ma anche «osservatore, che sta di fronte, studia» (Brecht).
Chi siamo, oggi, noi spettatori? Tirati per giacche e t-shirt da un teatro di prosa spesso tradizionalistico, erede del dramma borghese e di una regia critica post-brechtiana, ma anche ambiguamente sollecitati a partecipare, secondo i dettami della società in rete e dalle nuove “estetiche relazionali”, viviamo una “post-spettatorialità”, indecisa fra emancipazione e controllo. Allora potremmo “solo” ricominciare a pensarci spettatori, con la responsabilità di essere autonomi, perché «sono lo scarto, la non coincidenza o addirittura la mutua inconsapevolezza fra visione dell’attore e visione dello spettatore che fanno dell’arte teatrale un’arte, e non un’imitazione o una replica del conosciuto» (F. Taviani).
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La redazione consiglia
Un ottimo testo per approfondire: F. Taviani, Le due visioni: visione dell'attore e visione dello spettatore, in E. Barba, N. Savarese, L'arte segreta dell'attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Argo, Lecce, 1996.
Foto: Ilaria Costanzo, Bang!, Herman Diephuis - Contemporanea Festival, 2017
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