ESSERI DI CONTINUITÀ

Pochi giorni dopo essere tornato da Firenze, dove in occasione dell’inaugurazione della stagione del Teatro di Rifredi l’attrice Maddalena Crippa ha letto il mio ultimo testo, Il corpo più bello che si sia mai visto da queste parti (traduzione e direzione della lettura di Angelo Savelli), ho ricevuto una mail da Lorenzo Donati, che ho conosciuto quattro anni fa quando sono stato invitato a Mandanici (Sicilia), per una residenza di scrittura, Write, al Monastero di Santa Maria Annunziata.

Donati mi propone un articolo sul tema della rivista, Le scritture del dopo. Penso immediatamente al significato dell’avverbio “dopo”. Durante tutto quest’anno, ma soprattutto nel 2020, quando è scoppiata la pandemia, nelle nostre conversazioni e in molti discorsi ha fatto capolino con una certa frequenza la particella “dopo”, partendo dalla sfera quotidiana – cosa faremo o cosa vorremmo fare dopo [la pandemia] – fino al dibattito nelle istituzioni, sui giornali o fra intellettuali: pensando al mondo che ci attende e alle sfide che dovremo affrontare dopo [la pandemia]. L’avverbio “dopo” implica l’idea di un “più tardi”, dunque un’idea di continuità, qualcosa che segue un prima da un punto di vista temporale o di situazione, ordine o rango. Il dopo non esiste senza un passato e un presente. Non lo possiamo pensare come unità indipendente, dal momento che va sempre allacciata a qualcosa di precedente. Qualche anno fa una rivista specialistica di drammaturgia mi chiese di riflettere sul senso della contemporaneità nella scrittura.

Mi ricordo che parlai di un teatro che nel suo racconto genera un triangolo capace di legare e far dialogare passato, presente e futuro, qualcosa che ci è utile per appropriarci di tre verbi in relazione con i tempi che stiamo vivendo: riesaminare [il passato], affrontare [il presente] e anticipare [il futuro]. Mi accorgo che alcuni degli autori e dei testi che amo scavano dentro questa continuità temporale ed è per questo che sono sempre radicalmente contemporanei. Anton ÄŒechov era un autentico mago nel saper fare convivere, nel presente scenico, la fragilità di un tempo che pare sul punto di estinguersi con un altro, incipiente, che sembra sul punto di arrivare e che di fatto si è già praticamente imposto. Henrik Ibsen, Arthur Miller, Thomas Bernhard, Sarah Kane, Harold Pinter, Antonio Tarantino, Josep Maria Benet i Jornet, Lluïsa Cunillé, Gabriel Calderón o Sergio Blanco, per citarne solo alcuni, sono radicalmente contemporanei. Sono tutti testimoni e cronisti del loro tempo, ma anche del loro passato e del futuro. 

Durante il lockdown del 2020, isolati nelle nostre case, con i teatri chiusi, vivendo nella più assoluta incertezza e senza molte prospettive per il futuro, ci siamo molto interrogati su come sarebbe dovuto essere il “dopo”.

Quando pensavo al teatro, mi tormentava una domanda di fondo: quale importanza riveste il teatro nella nostra società, e cosa stiamo offrendo al pubblico affinché abbia un senso tornare a sedersi affianco a un altro cittadino, per condividere questo atto di comunità? Non lo so se ho una risposta. Non so nemmeno se esista una risposta specifica. Personalmente, l’unica che trovavo era scrivere a partire dall’onestà e dall’impegno verso la mia lingua e il mio tempo, come ho sempre tentato di fare. Per me, scrivere è sempre scrivere per il “dopo”, per lo spettatore di oggi ma anche per quello di domani, in un atto di continuità ininterrotta. Adesso credo di essere più consapevole dell’essenza di El cuerpo más bonito que se habrá encontrado nunca en este lugar, il testo che ho scritto in questi tempi di crisi, durante i quali tutti ci interrogavamo sul “dopo” (qualcosa che, di fatto, dovremmo fare sempre: porci domande sul domani). Nel testo ho evocato il paesaggio reale della mia infanzia e adolescenza. Nel testo un racconto di finzione iniziava con in un bellissimo paesaggio rurale. Un cadavere che si scoprirà in relazione con il passato di quel villaggio e che, come ogni vittima sacrificale, imporrà a quella comunità una riflessione pro- fonda sul “dopo”, affinché le sia permesso rigenerarsi. Credo che in buona parte del mio teatro io stia domandando a me stesso, e allo spettatore, che cosa dovremmo fare “dopo”. 

(continua a leggere...)

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