E DOPO?
Interrogarsi sulle scritture del dopo, se intendiamo con “dopo” il periodo che segue la pandemia (che in effetti non si è ancora conclusa) non è cosa semplice: è come se, precipitando, ci fosse chiesto di tracciare un grafico della caduta.
Mi immagino un alpinista, travolto da una valanga, che debba raccontare mentre la frana attorno a lui sta ancora assestandosi come pensa di ricominciare a scalare montagne da sopravvissuto. Sono immagini eccessive, lo ammetto, ma a pensarci bene nemmeno troppo. Quel che è accaduto negli ultimi due anni è in effetti qualcosa di enorme e ci vorrà parecchio tempo per metabolizzarlo. Dovremo imparare a poco a poco a decifrare le sue conseguenze, anche linguistiche, a leggere i segni che lascerà nelle opere.
In questo momento la cosa che più si percepisce è la sensazione generale di un nuovo inizio.
Gli inizi sono sempre forti, forse perché coincidono con un momento dinamico: di qua e di là dall’inizio è come se ci fossero un dentro e un fuori. Anche per questo, credo, si pensa sempre all’inizio come a una sorta d’ingresso in qualcosa di nuovo che presto si tradurrà in un racconto. Ma è davvero così? È davvero di un nuovo inizio che tratta questa nostra ripresa?
Quanto al racconto, è vero che questa volta fin dal principio non abbiamo fatto che raccontare. Affacciati alle nostre finestrelle mediali raccontavamo di tutto: come stavamo, cosa facevamo, come combattevamo la paura, la noia, l’impotenza, come dal chiuso delle nostre case continuavamo, nonostante tutto, a lavorare, a respirare, a mangiare, a sognare. Abbiamo discettato di digitale, di teatro online, di forme ibride. Qualcuno era a favore, qualcuno era contro. Si sono sperimentate dimensioni provvisorie con esiti talora discutibili, ma poco importava perché, in fondo lo sapevamo tutti, erano solo tentativi per resistere a un momento straordinario. Adesso, però, che si ricomincia davvero a lavorare e forse, sì, sarebbe davvero venuto il momento del racconto, di una narrazione (non solo verbale) che rimetta a fuoco anche il senso del proprio fare, proprio adesso ci ritroviamo catapultati in due condizioni opposte: da una parte c’è una specie di afasica, abbagliante liturgia del ritorno (alla vita, agli altri, a teatro...), dall’altro la droga di una ritrovata, rinnovata frenesia.
La parola chiave degli ultimi mesi (e forse, chissà, non solo di questi, ma anche di quelli che verranno) è certo “recupero”. Dobbiamo recuperare. A tutti i costi. Dobbiamo dimostrare gli uni agli altri che siamo vivi, super-vivi, super-pronti e super-produttivi, come prima e più di prima, perennemente animati dalla più vitale pulsione creatrice.
Recupero, pensiamoci bene, è parola letteralmente regressiva, che indica un moto all’indietro per riappropriarsi di qualcosa che ci è stato sottratto. E così i teatri, istigati dal ministero, si affannano a recuperare gli spettacoli cancellati e le repliche perdute, e tutti noi ci affrettiamo a recuperare i modi e le forme tipiche del nostro lavoro e lo facciamo, appunto, a suon di recuperi, mentre ci continua a ronzare per la testa una domanda, magari un po’ ottusa: ma cos’è che stiamo recuperando, esattamente?
Si recupera un oggetto smarrito, dimenticato, che ci è stato portato via, si recupera del denaro perduto, si recupera un danno, un guasto, si recuperano le forze e, se si è davvero fortunati, si recupera perfino la salute, dopo una lunga malattia.
Pensiamo a quest’ultimo caso: una guarigione, magari dopo un intervento chirurgico che ci ha esclusi dal mondo per giorni, settimane, mesi. C’è uno strano, palpitante senso di novità in ogni cosa che allora ritroviamo: l’aria sembra più trasparente e luminosa, ogni gesto, anche quelli più umili e scontati, come riallacciarsi per la prima volta le scarpe, all’improvviso ha un che di eccezionale, quasi miracoloso. Tornare a teatro dopo le interminabili chiusure, tornare sul palcoscenico o in platea, è un gesto altrettanto straordinario: avevamo quasi dimenticato l’odore del legno, la sensazione del respiro altrui nella penombra, il magnifico fruscio di un sipario che si apre. Tutto è nuovo e antico e la possibilità che ci si dispiega innanzi, nel ritorno al rito comunitario che avevamo sempre dato per scontato, è fortissima: riusciremo a non sprecare questo momento inedito che presto, fisiologicamente, passerà? Anzi, che sta già passando? Saremo cioè capaci, avremo per una volta la pazienza, anche solo un po’ di pazienza, di darci il tempo, anche solo un po’ di tempo, per capire davvero dove ci troviamo, in che modo possiamo ricominciare a parlare? Cosa dire e come dirlo?
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