DIETRO L’ANGOLO E LA FOTOGRAFIA DI PROSSIMITà

 

Uno dei tanti cambiamenti radicali che ha subito la fotografia nella storia, dalla pellicola al digitale, è l’esplosione dei cellulari. Il processo è iniziato con la digitalizzazione della fotografia che ha permesso una forte democratizzazione dello strumento, con lati positivi, come l’aumento dell’accesso, e lati più critici. 

Durante la pandemia, incredibilmente, la fotografia ha riacquistato una centralità molto forte, ma l’importanza dei cellulari è esplosa. Quando eravamo tutti chiusi in casa la fotografia ci ha fornito le prove, creando la consapevolezza di ciò che stavamo vivendo. Parlavamo di virus, di letalità, ma fino a che non abbiamo visto le immagini delle terapie intensive probabilmente non avevamo la piena consapevolezza del periodo che stavamo correndo. In quel momento noi fotograf* eravamo una delle poche categorie che potevano uscire, eravamo fortunati ma, almeno personalmente, sentivo una forte responsabilità, sia perché potevo uscire e gli altri no, quindi stavo vivendo un privilegio, sia perché attraverso il nostro lavoro noi eravamo gli occhi degli altri. 

È durato poco, perché presto la fotografia è tornata alla normalità pre-pandemica. Ma la democratizzazione del mezzo, nei giorni più duri, ha permesso un racconto molto più diretto. Le prime immagini della pandemia, tra le più virali e viste, non erano dei fotografi, ma del personale medico. Le fotografie delle persone in terapia intensiva, della stanchezza degli operatori sanitari erano fatte dai protagonisti stessi, da chi stava lavorando. Questo rappresenta un fattore positivo secondo me, perché l’esclusività del mezzo e del racconto non è mai augurabile. In tutto ciò abbiamo vissuto una sorta di anomalia all’italiana, perché nel momento in cui eravamo al centro del mondo, ce lo siamo fatto raccontare dagli stranieri. Abbiamo un sacco di fotografi bravissimi, ma che nessun giornale italiano ha pensato bene di chiamare, mentre le riviste estere lo hanno fatto e noi poi abbiamo ripubblicato il loro lavoro. 

Raccontare è molto importante ed è anche importante non delegare questo lavoro. Il fotografo deve essere presente per raccontare una cosa in modo empatico. La sua foto può essere molto utile a chi legge un articolo. Per questo credo che noi, come fotografi, dovremmo fare un passo indietro, uscire un po’ dalla scena e far si che il soggetto diventi la storia e non tanto il fotografo che la racconta. Sono le storie a fare la fotografia e non il contrario. Molto spesso nelle storie c’è troppo “io”, un insopportabile lascito coloniale ed eurocentrico. Preferiamo raccontare le storie degli altri, anche quando si tratta di clima: è più facile parlare dello scioglimento dei ghiacciai del Polo Nord che dell’alluvione a Livorno o in pianura padana. È un periodo storico per la fotografia molto particolare, perché siamo invasi da uno tsunami di immagini quotidiane. Siamo come sedati da alcune immagini, ad esempio quella del piccolo Alan Kurdi, che nel loro scalpore non ci sconvolgono più. Anche questa è una sfida: trovare delle strade per riuscire a far sì che la fotografia non diventi un calmante, ma che sia un qualcosa che ti dia la scossa. Perché se non riesce a darti la scossa, se ti tranquillizza e ti calma, facendoti passare incolume alla prossima tragedia, ha perso. La fotografia deve essere qualcosa che ti fa fermare e ti fa dire: «no, adesso basta!». E questo è molto difficile dal momento che siamo invasi da una quantità di immagini impressionanti. Il problema è che non riusciamo ad avere quella giusta attenzione verso le immagini che possano innescare reazioni.


Il contesto italiano non sempre aiuta. Ad esempio, tra le prime pagine dei quotidiani internazionali e quelle italiane ci sono divergenze molto forti. All’estero la prima pagina è costruita attorno all’immagine, in Italia attorno al titolo, perciò la foto, nel nostro caso, serve a giustificare e a confermare il titolo, come un rinforzo. Questo fa sì che la fotografia venga considerata uno strumento secondario dell’informazione e non primario. Un altro aspetto sul quale credo sia importante soffermarsi è quello relativo al punto di vista. La fotografia non è la verità e non è neutrale. La stessa sala, cambiando inquadratura, posso mostrarla vuota o piena. Sostenere che la fotografia sia imparziale è ovviamente una stupidaggine. Cercare di realizzare una fotografia neutrale è comunque una scelta. C’è sempre un punto di vista, perciò la fotografia non è mai imparziale. E questo è da tenere presente sempre quando si guarda una foto. Durante la pandemia è stata forte la polemica sugli assembramenti e sulla movida. Quando facevo le foto su una via piena a Bologna, veniva sempre messa in dubbio la veridicità delle immagini. Le persone sono abituate a dubitare e a non fidarsi, e questo è colpa molto della stampa e dell’editoria che ha trattato i lettori come persone che si “bevono” tutto. Quando sono stato in Bosnia, a gennaio del 2021, le foto che scattavo venivano sempre messe in dubbio, come se non fossero vere. Come possiamo confrontarci con questo atteggiamento? Secondo me non si deve mai dare la colpa al lettore stupido, ma bisogna ragionare sul ruolo della fotografia e su come restituirle autorevolezza. Qualche anno fa il quotidiano francese «Libération» è uscito senza foto ed è stato impressionante. Sfogliandolo, rimanevi incredulo. Quando sfogliamo i quotidiani con le fotografie, vuoi perché sono piccole, scelte male o vecchie, non prestiamo molta attenzione alle immagini. E questo dipende soprattutto da un sistema che non permette alla fotografia di potersi esprimere in maniera totale e libera. 

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