Corpi dimenticati e solitudini impossibili. Appunti sul teatro ragazzi a venire

“Prima le donne e i bambini”. Sembrerebbe quasi che questo detto - associato dalla consuetudine a emergenze di varia natura, ma in particolare ai naufragi marittimi - sia stato quasi rovesciato durante la pandemia di Covid-19. Il peso del lavoro di cura, molto spesso sulle spalle della componente femminile della società, e le esigenze del mondo infantile sono il più delle volte finiti in fondo alla lista delle priorità, “scaricati” totalmente all’interno di contesti famigliari, individuali e individualizzanti. Mentre l’Italia, e prima di lei la Cina e poi l’Europa e infine il mondo intero, colavano a picco per la diffusione di un virus sconosciuto e letale, buona parte della popolazione si è isolata in casa nel tentativo di spezzare la catena del contagio. Scuole, parchi e, in generale, i luoghi di aggregazione infantile (e non) sono stati chiusi, così come i luoghi di visione e fruizione culturale, strutture teatrali e cinema. L’educazione è stata portata avanti su base volontaria attraverso la didattica a distanza, mentre artisti e compagnie hanno provato a mettere in campo percorsi di “compresenza alternativa”, fra spettacoli in streaming, radiodrammi e favole al telefono.

Anche a distanza di mesi dallo scoppio dell’emergenza e dopo che alcuni festival di teatro hanno ripreso la propria programmazione, rimane la sensazione di un vuoto incolmabile. Anzi, di una “ferita”, per usare le parole della professoressa dell’Università di Bologna ed esperta di educazione Federica Zanetti, che afferma: «Ora occorre capire come ‘cicatrizzare’ ciò che è successo. In questo senso il teatro può essere un luogo di ricordo e rielaborazione, soprattutto per quanto riguarda bambini e adolescenti: penso infatti che ci sia l’assoluta necessità di non dimenticare, di inserire i vissuti (anche quelli dell’infanzia) all’interno di una narrazione e dare loro un nuovo senso». Un compito che il teatro per e con i ragazzi ha in qualche modo provato ad assumersi fin dalle sue origini e a prescindere dall’emergenza pandemica appena attraversata: come ricorda il critico-testimone del settore Mario Bianchi nei suoi numerosi interventi e nelle sue numerose pubblicazioni, quello infantile non è in alcun modo lo “spettatore di domani” ma un referente con caratteristiche ed esigenze specifiche che hanno valore in sé. Non va dunque protetto da traumi e tematiche scabrose, bensì invitato attraverso la prassi scenica a divenire partecipe di una visione collettiva, di un discorso condiviso. «I bambini sono soggetti titolari del diritto a una partecipazione culturale attiva», prosegue Federica Zanetti. «Il teatro è un luogo in cui poter elaborare delle domande attraverso le immagini, le emozioni e soprattutto attraverso i corpi, che sono stati ‘dimenticati’ durante l’isolamento. È il luogo in cui, anche per i ragazzi, poter esercitare un vero e proprio diritto di cittadinanza».

Diventa naturale allora che, in un momento di incertezza e faticose riaperture, il teatro per l’infanzia guardi alla scuola come a un alleato naturale. In questo senso, oltre che un luogo dedicato all’apprendimento e alla sociabilità, l’istituzione educativa andrebbe forse considerata come spazio di accrescimento del bagaglio esperienziale e sensibile di bambini e giovani. Lo ribadisce Linda Eroli, presidentessa di Assitej Italia – Associazione nazionale del Teatro per l’infanzia e la gioventù, nel tratteggiare l’importanza del rapporto con la scuola per quanti hanno deciso di dedicarsi all’arte da destinare alle nuove generazioni offrendo un servizio pubblico culturale: «I giovani sono i ‘personaggi fantasma’ di questo dramma distopico. Il teatro per l’infanzia e la gioventù sta vivendo un destino parallelo a quello della scuola. Chi lavora a stretto contatto con le istituzioni educative ha visto interrompersi dinamiche progettuali, che avevano anni di costruzione e gestazione alle spalle e che contemplavano un orizzonte di crescita per nulla immediata. Si tratta di alleanze non scontate, ma da rinsaldare in continuazione e reciprocamente». È come se scuola e teatro, due poli culturali fondamentali ma continuamente sottoposti a pressioni burocratiche e finanziarie, si ritrovassero oggi a condividere le medesime incertezze sul futuro, ma anche un forte senso di responsabilità verso bambini e giovani improvvisamente privati di spazi e attività. «Oggi, proprio come il mondo educativo, non sappiamo nulla», continua Linda Eroli. «Quello che possiamo fare è attivare la nostra conoscenza dell’ambiente scolastico, le relazioni con gli e le insegnanti, la pratica dell’ascolto e la messa a disposizione della nostra competenza creativa e professionale per fare in modo che quando le scuole riapriranno si possa creare una sinergia profonda. Negare l’esperienza artistica a bambini e ragazzi significa negargli un pezzo fondamentale di formazione sociale ed esistenziale: è allora nostra responsabilità garantirla, dal momento che abbiamo scelto di fare arte con loro e per loro».

L’eventuale riapertura delle scuole dunque e, di conseguenza, la ripresa di tutte quelle attività che coinvolgono gli studenti all’interno di percorsi educativi a lungo termine, come le esperienze di spettatori di teatro o di partecipanti ai laboratori teatrali, diventa fondamentale per evitare una crisi educativa, formativa e sociale, che rischia di essere ben più profonda di quella meramente economica e di settore. Una ricerca dell’ospedale pediatrico Giannina Gaslini di Genova, realizzata dall’equipe del neurologo Lino Nobili, ha sottolineato come nel corso del periodo di confinamento i bambini, allo stesso modo degli adulti, sono stati interessati da una serie di disturbi, dall’insonnia, all’ansia, all’irritabilità, che sono sintomo di un disagio diffuso e persistente, di una “ferita”, appunto, non ancora rimarginata. Ma, ancor prima delle conseguenze propriamente psicologiche individuali, è come se fosse venuto a mancare uno spazio comune e comunitario, una dimensione in cui ragazzi e ragazze potessero essere liberi di “esperire” la propria infanzia. «Durante questo periodo di confinamento ho notato che la solitudine non esiste», racconta uno dei bambini intervistati da Agnese Doria durante il lockdown per la puntata Incorporeo del ciclo di interventi radiofonici Noi siamo qui che abbiamo realizzato come Altre Velocità. «Sono sempre chiusa in casa con i miei genitori e mio fratello. Mi mancano i miei amici, ma mi manca anche stare da sola».

E se il teatro – e in particolar modo il teatro per l’infanzia e la gioventù – fosse appunto uno “strumento” per recuperare questa condizione di “solitudine compartecipata”, che è andata incrinandosi durante gli ultimi mesi? La studiosa Mafra Gagliardi afferma nella sua indagine seminale sullo spettatore bambino Nella bocca dell’immaginazione [Titivillus, 2007]: «[…] nel qui e ora dell’evento teatrale, l’Io dello spettatore si estende, si dilata, si accresce nel sociale mentre si sottopone contemporaneamente a un processo di identità, legato alla risposta soggettiva che ogni spettatore dà alla domanda di senso posta dallo spettacolo». Per aprirsi al corpo collettivo, cioè, il corpo singolo dello spettatore deve abbandonarsi a una solitudine profonda, necessaria alla comprensione di una visione che resta infine personale, privata, ma che è al contempo l’unico tramite di intercomunicazione, di un “essere-con”. Si tratta, di fatto, della situazione che in questo momento vede coinvolto quasi l’intero corpo sociale: festival, teatri, attività educative, luoghi di aggregazione e contesti lavorativi sembrano riprendere il proprio svolgimento, fra l’entusiasmo di un ritrovato incontro fisico e la consapevolezza che sussiste e permane una distanza incolmabile fra le singole parti. Lo spazio dello spettatore-bambino è allora sempre più lo spazio di una rielaborazione possibile, della cicatrizzazione di una ferita che ci riguarda e ci chiama tutti in causa fra scuola e scena, fra solitudini identitarie e rinnovato orizzonte collettivo.

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Foto: Ilaria Costanzo, Mini, Compagnia TPO - Contemporanea Festival, 2017

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