CONVERSAZIONE con Renato PALAZZI sullo STATO di CATTIVITÀ del TEATRO ITALIANO

«C’è un problema generazionale, ma non è solo un problema generazionale: è un problema legato in realtà alla distribuzione, al mercato, alle possibilità di far vedere le cose. Consideriamo chi fa fatica, certo, ma teniamo presente anche e soprattutto quelli che sono spariti e che cominciano a essere parecchi: ci sono gruppi che hanno vinto premi, che hanno ricevuto riconoscimenti o che sembravano avere quanto meno una riconoscibilità artistica precisa: ora sono scomparsi o semi-scomparsi, e comunque non sono più su piazza. Andrebbe fatto un censimento per capire cosa è successo».


«Le ragioni? Credo ci siano diversi ordini di problemi. C’è poi un discorso economico, perché per crescere devi avere a disposizione più persone, devi fare messinscene più nutrite, non puoi continuare a fare spettacoli minuscoli: devi poter scritturare degli attori, dei musicisti, dei coreografi se servono, dei cantanti se servono, però ci vogliono i mezzi.... C’è un problema economico, dunque, e c’è un problema di tutoraggio perché credo che sia difficile maturare se non hai punti di riferimento, se non hai qualcuno che ti aiuta a crescere, dei Maestri che possono darti consigli. È molto importante avere luoghi e figure di riferimento, ma oggi è rarissimo che qualcuno ti dia modo di provare e di sperimentare in libertà, di correggere i tuoi errori, senza immetterti immediatamente in un meccanismo produttivo spietato. E poi c’è un terzo problema, secondo me, ed è quello della distribuzione e del mercato: adesso tu puoi anche fare una bellissima produzione o avere un grandissimo talento, poi fai tre repliche e la cosa finisce lì. Così si continua ad avere delle realtà teatrali che sono completamente sconosciute al pubblico».


«L’altra domanda che però mi faccio è anche: quelli che invece arrivano ad affermarsi un po’ di più, che arrivano a imporre un po’ di più il loro nome, hanno poi tutte le possibilità di crescere davvero o si fermano invece al livello che gli ha dato notorietà e che gli ha garantito un riconoscimento? “Crescere” vuol anche dire andare oltre ciò che hai fatto fino a quel momento. C’è spesso il rischio della ripetitività e che una volta trovato uno stile, ci si adagi sull’uso di quello stile. Non dimentichiamo che abbiamo avuto una generazione di gruppi che è stata schiacciata dalla richiesta di debutti continui nei festival e di studi che duravano mezz’ora e che diventavano una sorta di labirinto in cui non si arrivava mai all’uscita: quanto ha sofferto quella generazione per questo meccanismo coercitivo? Chi ha quarant’anni riesce a crescere davvero? Io sono preoccupato che quei quarantenni restino schiacciati tra i venticinquenni/trentenni e i cinquantenni che stanno cominciando adesso ad affacciarsi al Potere».


«Se esiste una nuova generazione teatrale? Non lo so. Avevo creduto di riconoscere una generazione soprattutto in quella che è nata in questi ultimi quindici anni (quella degli Anagoor o dei Sotterraneo, per intenderci): è stata una generazione caratterizzata da un cambio di rotta comune, da linee non uguali ma similari, e con la possibilità di una qualche unione di intenti o di forze. La generazione precedente – la grande generazione dei Martone o dei Barberio Corsetti, ad esempio – non è stata “una generazione”, o meglio: lo è stata in senso anagrafico, ma sembrava più guidata da storie personali... e infatti alla fine, si è integrata molto più rapidamente. Ci sono artisti che hanno continuato sulla loro strada, ma non c’è niente in comune, credo, tra il percorso di Mario Martone e quello di Gabriele Vacis, per dire, che pure sono usciti negli stessi anni. E adesso onestamente non so: mi sembra tutto frammentato. Non saprei dire se esiste una nuova generazione. Vedo gruppi interessanti, vedo registi interessanti, però sembrano singole cose, fragili, troppo fragili».


«Riuscire a sedere al tavolo dei grandi? Non so se sia questa la questione. Prendi il caso Anagoor, che conosco bene, per averli seguiti passo dopo passo: hanno fatto l’Orestea, e hanno fatto almeno altri tre spettacoli molto importanti, con mezzi produttivi notevoli, ma in Italia quanti sanno chi sono gli Anagoor? Oppure prendi Deflorian-Tagliarini: loro sono al tavolo dei grandissimi, artisticamente parlando, però detto questo cosa succede? Sui grandi numeri, sembra non cambiare niente.
Forse abbiamo due certezze. La prima: che i festival restano, nella migliore delle ipotesi, un circuito chiuso e cioè che dai festival non esci: quello che viene prodotto dai festival non arriva insomma in stagione. La seconda: che i teatri Nazionali, quando hanno cercato di adottare linee diverse, in realtà non hanno prodotto i risultati che ci si poteva aspettare: forse perché quegli artisti sono stati soffocati, ingabbiati. Ecco, credo che dietro tutto questo ci siano anche delle strane esigenze che i teatri pubblici hanno di espandere sempre la dimensione spettacolare, di imporre – sì, di imporre – delle scenografie imponenti là dove non sarebbe necessario, e di far prevalere dei criteri produttivi standardizzati là dove certe produzioni nascono del tutto libere».


«E tenete presente che il discorso che stiamo facendo non è solo anagrafico. Io non dimenticherei alcuni Maestri, più o meno riconosciuti come tali, del teatro di ricerca (come Danio Manfredini, Claudio Morganti, Alfonso Santagata). Ebbene: quante repliche fanno in un anno? Poche, molto poche: forse neanche da camparci. E quindi il problema della distribuzione va oltre l’età e va oltre il riconoscimento perché sappiamo tutti che loro sono riconosciutissimi: eppure non lavorano».


«La stagione dei gruppi? Sta rischiando la fine per una normativa ministeriale che sta cercando di ammazzarli. Ma stanno ammazzando il teatro italiano, non solo i gruppi. Cioè, mi sembra che il progetto sia chiaro: soffocare quasi tutto e tenere in piedi alcuni baracconi che offrono poltrone, che sono controllabili economicamente e politicamente, e il resto farlo fuori. Non voglio fare il complottista, sia chiaro, però non vedo altre possibilità di lettura. I gruppi? Basta ucciderli. Anzi, non serve neanche ucciderli, ma porli in condizione di morire attraverso un meccanismo che li sta soffocando e che sta soffocando tutto il teatro indipendente».


«Cosa possiamo fare? Non molto, credo. Perché a questo progetto, fatto anche di nomine raccapriccianti, non ci si oppone scrivendo su un giornale “Ah, che brutta nomina!”. A questo progetto semmai ci si oppone collettivamente, con un grande movimento di protesta e di resistenza del teatro: cosa che mi pare tuttavia tra le più improbabili che ormai si possano concepire: eppure ci vorrebbero. Anzi, ci volevano già anni fa, rispetto al famigerato decreto. Ma se si perdono questi attimi, se si perdono queste occasioni, poi basta: è finita».


«Va bene. Saluti. Ciao...».

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