Cara vecchia critica
Un maestro pieno di inventiva porta gli studenti al mercato e a raccogliere frutti selvatici, ma insegna anche attraverso il teatro mettendo in scena uno spettacolo con gli alunni. Fra loro c’è un ragazzo che rimane particolarmente colpito. Crescendo, questo ragazzo va a teatro con la madre e la nonna, ancora ricorda la lentezza e lo stupore nel salire gli scaloni di un teatro all’italiana, ricorda l’odore dei velluti rossi in attesa che si alzi la saracinesca tagliafuoco. Alle superiori fa teatro grazie ai laboratori di recitazione condotti dalla compagnia della città: si fanno le prove al pomeriggio negli atri vuoti e si va in scena in primavera. Il ragazzo frequenta anche la stagione di teatro contemporaneo e una sera vede uno spettacolo che non dimenticherà, così decide di vedere sempre più spettacoli, ne parla con gli amici e con lo zio più grande. Si iscrive all’università, studia il teatro e lo frequenta da spettatore, d’estate s’imbatte in un “giornale del festival” scritto da suoi coetanei, cerca in facoltà dei corsi di scrittura critica, ma per trovarli dovrà spostarsi in un’altra città. Prende l’abitudine di annotare su un quadernetto quello che vede, valutando il lavoro nel suo complesso. Comincia a collaborare con una rivista nazionale, incontra compagne e compagni di viaggio, insieme fondano un’associazione con la quale scrivono, fanno progetti, inventano spazi.
Questo racconto potrebbe assomigliare a quelli di chi ha iniziato a scrivere negli anni Zero, seguendo i percorsi di una professione che si è reinventata dopo le stagioni della militanza al fianco delle poetiche e avvicinandosi all’editoria e all’università, facendosi “impura” operando dentro a professioni diverse, dalla curatela all’organizzazione. Negli ultimi vent’anni la critica si è fatta “pedagogica e relazionale”, organizzando laboratori di educazione nelle scuole, workshop nelle università, percorsi di accompagnamento e divulgazione nei festival. Quasi sempre la critica ha dovuto fare i conti con un ridursi di spazi e influenza, dunque con un lento declino almeno dal punto di vista giornalistico- professionale. Da questo dovrebbe partire oggi il ragazzo che s’innamora degli spettacoli a scuola: da uno spazio giornalistico definitivamente non praticabile, ma con zone residuali alimentate da narcisismi, agitate da microscopici esercizi di potere, rimestate da tornaconti promozionali e pubblicitari. Che lavoro fai? Faccio il critico. Nel migliore e più nobile dei casi chi risponde così afferma di stare dedicando il proprio tempo a una persuasione che in altri contesti chiameremmo “amatoriale”, almeno dal punto di vista critico-giornalistico. La stragrande maggioranza dei critici oggi non vengono pagati per scrivere e non hanno caporedattori e testate giornalistiche a cui fare riferimento e, con la recente scomparsa di Renato Palazzi, se n’è andata una delle ultime figure di “critico titolare” di una rubrica fissa su un quotidiano nazionale. Chi dice di “fare il critico” scrive prima di tutto per passione, rivolgendosi alla comunità di lettori e lettrici (al 90% addetti ai lavori) che è riuscito a costruirsi negli anni. Questo non significa che non esistano luoghi dove scrivere e sperimentare, al contrario: una “mutazione tecnologica” della critica, con l’avvento del web nei primi anni zero ha prodotto una proliferazione di riviste online, webzine, blog, portali che ospitano recensioni, segnalazioni, saggi di analisi.
C’è chi lo fa con i ritmi e le cadenze quasi quotidiane del giornalismo, come la più longeva «Klp» o la più seguita «TeatroeCritica»; c’è chi ospita approfondimenti dal taglio critico-storiografico e sulle politiche teatrali, come «Ateatro», pioneristico portale nato nel 2001, seguito poco dopo da «Altre Velocità», che ospita speciali, approfondimenti e podcast. Ci sono siti di cultura e arte con sezioni di critica dello spettacolo, come «Doppiozero» o «Artribune», riviste di critica come «Pac» e «Il Pickwick», portali e blog di altri ambiti ma con uno spazio dedicato al teatro, come «Il Tascabile» di Treccani e «minima et moralia» di minimum fax. Ci sono spazi specialistici online dedicati alla danza, al teatro per ragazzi, ci sono riviste accademiche che hanno scelto di “sporcarsi le mani” in percorsi di formazione e ospitando recensioni e segnalazioni come «Stratagemmi». A parte rarissime eccezioni e sperimentazioni tutte queste realtà non possono permettersi di retribuire collaboratori e redattori, che operano dunque a titolo gratuito, almeno riguardo alla stretta attività di scrittura e pubblicazione. La situazione non è diversa se ci spostiamo sulla carta stampata e guardiamo alle poche riviste nazionali specialistiche: «Hystrio», «Sipario», «Danza & Danza».
Tutti “i critici” per vivere dunque devono fare altro: c’è chi si dedica a professioni legate alla cultura e all’educazione (formazione, insegnamento, organizzazione, comunicazione, ecc.) e c’è chi invece tira una linea scegliendo tutt’altro (ristorazione, commercio, finanza, ecc.); per entrambi la critica intesa come scrittura è l’attività con il tasso di amatorialità più spiccato, ma paradossalmente è la scrittura a restare la più consistente “moneta di scambio”, con cui ottenere riconoscimento e legittimazione nell’ambiente teatrale. La critica di teatro e danza si muove ondeggiando fra due poli in dialogo/scontro reciproco: da una parte l’etichetta del critico-recensore-comunicatore (un tempo l’avremmo chiamata la funzione informativa del giornalismo): prendere parola, postare recensioni con celerità, fare girare gli algoritmi, fotografare e fotografarsi, intervenire in tempo reale sui temi caldi perché contano più due righe emotive ed immediate che una riflessione ponderata (il silenzio non è quasi mai contemplato); dall’altra parta una funzione critica assunta da chi prova ad allargare il campo del dibattito sul teatro attraverso workshop di critica con giovani e studenti, laboratori nelle scuole, curatele di incontri e progetti di divulgazione, cercando anche di non smettere di scrivere, nel tempo che resta.
«Descrivere, tramandare, far conoscere o al massimo riconoscersi» scriveva Franco Quadri. L’etichetta prevede che il lavoro del critico si manifesti con recensioni, interviste e presentazioni, prevalentemente online. Negli ultimi anni l’etichetta prevede che il critico venga messo nelle condizioni di lavorare da teatri e compagnie, che pagano viaggi, pernottamenti e cene per raggiungere le repliche degli spettacoli. L’etichetta prevede infine che il critico, a fronte di tutto questo “dispendio”, si prodighi scrivendo di quello che ha visto (o almeno posti, fotografi, comunichi). Anche sulla sponda della funzione critica sono quasi sempre i teatri stessi, o le compagnie e i festival, a generare i contesti per il lavoro del critico, che dunque affianca i progetti, ne diviene collaboratore e sostenitore, chiamato a curarne specifiche azioni di divulgazione e approfondimento e assumendo i panni di figure professionali vicine a quelle di dramaturg, mediatori o educatori interni allo staff di un teatro. Comunque la si voglia vedere, siamo davvero prossimi alla fine della critica per come l’abbiamo conosciuta, data la preminenza di un’etichetta che fatica a svolgere una funzione critica e il disseminarsi della funzione critica su diverse mansioni interne alle strutture, o attraverso collaborazioni spesso estemporanee. Comunque la si voglia vedere, quella del critico è una condizione che dovrà rinnovarsi e mutare nuovamente pelle, se non vuole restare il passatempo di pochi amatori o il gingillo per famelici egotismi.
Una serie di domande, che un tempo avremmo chiamato deontologiche, restano inevase e ci paiono punti da cui ripartire: oggi davvero possiamo scrivere evitando l’enfasi promozionale, dato che conosciamo bene quasi tutti gli artisti e che gli organizzatori sostengono le nostre spese? Ma, ancora più semplicemente: oggi possiamo avere chiaro il panorama teatrale, seguendo debutti e l’evoluzione delle poetiche, visto che non possiamo più permetterci di viaggiare perché facciamo altri lavori? Ogni funzione critica dovrebbe ricreare le condizioni per generare un campo aperto della dialettica. Ma è ancora possibile farlo quando sono i teatri e le compagnie a retribuire l’attività del critico, rendendola molto prossima a una collaborazione interna? Capita spesso, nei fatti, che si generino frizioni fra le sacrosante idee sul teatro dei critici e l’inevitabile adesione al progetto, necessaria per collaborare: così costruire una sostenibilità lavorativa duratura risulta estremamente complicato, se non velleitario. Ma, anche ammesso che riusciamo a fare tutte queste cose: quale spazio resta, nell’arte e nella società, per una discussione che statutariamente non si fonda sul consenso? E quale spazio stiamo lasciando collettivamente e individualmente a chi si permette di metterci in discussione, prima di difenderci nel battibecco, nel rancore, nel flame che tutto fagocita e disinnesca?
La situazione è grigia e in esaurimento eppure abbiamo il dovere di guardare anche quello che si muove, segnalando gli spiragli che nonostante tutto restano aperti. Da questi potrebbe partire il ragazzo innamorato del teatro, per allargarli inventandone di nuovi: dalla persuasione e dalla competenza di alcuni critici che sopravvive nelle maglie libere del lavoro, da chi porta avanti le forme della critica giornalistica su carta e online dopo avere ricostruito un’autorevolezza nella faticosissima ricerca di autonomia e sostenibilità, dal lavoro sul campo con spettatori, giovani e addetti ai lavori della “critica pedagogica e relazionale”.
Oggi la cara vecchia critica è inquinata dai piccoli ma persistenti ricatti di un’etichetta che dovrebbe rinnovarsi, è indebolita da una funzione che dovrebbe ritrovarsi... tutti le tirano la giacchetta, a parole le attribuiscono ruoli che poi nessuno è disposto a riconoscerle, l’accusano di maneggiare un potere che non ha, la investono di aspettative di approfondimento, studio e informazione che (anche colpevolmente) non riesce più ad assumersi. A forza di tirare la giacchetta potrebbe rompersi e forse c’è del buono, perché così il ragazzo dovrà inventarsi un nuovo modo di farla, questa cara vecchia critica, con la fierezza e la spavalderia di chi saprà voltare pagina e ricominciare da capo.
Fra gli spiragli crediamo ci sia anche la rivista che ave- te tra le mani: un progetto prodotto interamente da un teatro pubblico ma con una precisa architettura che ha di- segnato una continuità sul lungo periodo e la totale auto- nomia del gruppo redazionale (anche rispetto alla coper- tura della sua stessa stagione). In questo spazio, che già di per sé indica una strada per un rilancio invitando a imma- ginare nuove alleanze, ci siamo voluti prendere il lusso di restituire alla critica l’agio del ragionamento, attribuendo qui due intere pagine in tempi di recensioni in formato francobollo. Abbiamo così provato a interpellare alcuni colleghi e alcune colleghe chiedendo loro di raccontarci qualcosa che fosse davvero rilevante nelle visioni degli ultimi mesi. Dopo che questa rivista si è occupata tanto di teatro senza spettacoli, ora ci pare necessario occuparci delle opere, dei discorsi degli artisti. Ci rivolgiamo a te, ragazzo o ragazza del futuro e ti consegniamo quattordici racconti e le parole di un maestro che sono altrettante possibilità di sguardo, “spiragli” in cui crediamo per praticare la critica fra etichetta e funzione.
Come scriveva Nicola Chiaromonte, abbiamo provato a «scegliere fra i fatti più buoni e i meno buoni [...] non andare in fondo alle critiche altro che in rari casi di pro- vocazione grave e non accampare criteri assoluti altro che a titolo di richiamo teorico e ideali», perché «nessuno che voglia recitare una sia pur minima parte sulla pubblica scena può essere superiore alla società in cui vive».
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