Alla ricerca della lingua del tempo. Un ricordo di Giuliano Scabia
La poesia è l’asse intorno al quale Giuliano Scabia ha costruito il suo mondo espressivo. La poesia canto di Orfeo, addomesticatrice di bestie, fondatrice dell’agricoltura, e quella di possessione di Dioniso, il capo-coro, il dio del teatro.
Il teatro di Scabia è stato vagante, teso prima, negli anni Sessanta, a rinnovare il palcoscenico, poi a farlo esplodere, quindi a dilatarlo e a farlo corrispondere al “gran teatro del mondo” (shakespeariano), lì dove si osserva e si è osservati. Cosa si osserva? Si osserva il mondo, la società che cambia, e si osserva se stessi, indagando nei recessi più misteriosi, negli alberi e nelle bestie che abbiamo in noi ma anche nelle storie che ci raccontiamo per conoscere, per consolare, per riformulare le cose. Si osservano le stelle, l’universo, i boschi, gli esseri umani, narranti, cantanti, danzanti, cercanti i mezzi per trasporre quella cosa faticata che è la vita in sprazzi di paradiso. Con che cosa, come si indaga questa lingua del tempo? Con la voce, i corpi, i corpi in voce, in danza, con i piedi che si muovono e creano e sostengono, col loro ritmico battere, i versi, la poesia. Una poesia anch’essa, come il teatro, non chiusa nelle pagine ma detta, vagante, interrogante.
«Teatro test» scriveva Scabia negli anni Sessanta e Settanta. Teatro nello spazio degli scontri. E allora creava il primo testo dell’avanguardia teatrale, Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la Grande Mam alle prese con la società contemporanea (1965), sul palcoscenico, con gli attori e il regista Carlo Quartucci. E poi, al Piccolo Teatro di Milano e con la Comunità Teatrale dell’Emilia Romagna (erano i tempi del teatro collettivo, del Living Theatre in Italia), dava vita a partiture per la scena come domande poste alle ideologie del tempo (eravamo intorno al 1968) per far esplodere stereotipi. Verso la fine degli anni Sessanta il teatro test si trasformò nell’invenzione di «schemi vuoti»: canovacci prefiguranti azioni, che dovevano essere riempiti non da improvvisazioni con gli attori ma da incontri, atti e invenzioni perché «teatro è anche…» – scriveva in Teatro nello spazio degli scontri (1973) – è anche mille cose: i rapporti per costruire tracce d’immaginario condiviso o conflittuale nei quartieri periferici e incontro, burattini, sogni, necessità. Questo teatro sonda, calato dentro i contrasti politici e sociali di quegli anni – a Torino viaggiò in periferia cercando di fondare un teatro partecipato poco dopo “l’autunno caldo” del ‘69 – a un certo punto diventò sonda sia nell’immaginario individuale che in quello collettivo. Marco Cavallo (1973) e Il Gorilla Quadrumàno (1974), due giganti proiezioni l’uno del bisogno di libertà nelle istituzioni totali (i manicomi), l’altro della ricerca del bosco interiore e delle radici, aprirono la strada a una nuova fase di ricerca, volta a spostare la lingua della realtà nella dimensione fertile e infinita dell’immaginario.
Qui iniziò il Ciclo del Teatro Vagante, una lunga serie di testi veri e propri e di spunti, folgorazioni, canovacci che andavano in cerca delle lingue del tempo, della nuova koinè che si stava formando. Scabia forzò sempre i limiti: chiamato a insegnare all’università portò gli studenti fuori dalle aule, nel mondo in trasformazione, sulla montagna spopolata e nelle periferie industriali soffocate dai miasmi. Fece volare col fuoco dolci teatrini di carta, mongolfiere sulla città di Bologna, incendiata dagli scontri causati dalla prima emersione consapevole dell’età della precarietà e accelerati dall’assassinio di Francesco Lorusso. Usò i corsi accademici per esplorare gli immaginari dei giovani, aprendo il cerchio magico o richiudendolo in atti di auto-osservazione e di auto-ascolto quando i tempi cambiarono e parve più importante concentrarsi sul viaggio all’interno di se, negli anni dell’apparenza e del conformismo.
La ricerca di una voce, del corpo, della poesia della lingua del tempo guidò sempre la sua azione: quando scriveva le immaginazioni barocche di Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno (1972) e inventava la carretta dei comici vaganti fino alle porte del Paradiso e quando nel 1975 cercava nel territorio di Mira le vere storie della campagna trasformata in fabbrica; quando componeva per Luigi Nono i testi di La fabbrica illuminata(1964), ascoltando le voci degli operai dell’Italsider di Genova, e quando a partire dal 1979 girò per antichi borghi umbri e del casentino o per città come Venezia e Parigi travestito da Diavolo, legato indissolubilmente a un Angelo musicante, in un contrasto continuo che formulava l’impossibilità di scindere Bene e Male e che riconosceva nel povero Maligno una controfigura degli dèi antichi, vitali, degradati dal cristianesimo a tentatori.
Il gran seduttore Scabia affascinava perché anche lui, per amore e per gioco, voleva scuotere immagini dentro tutti, usare la scena per proiettare visioni, esplicite o nascoste sotto le maschere del vivere quotidiano, e rivelarle. Il tocco del poeta per lui somigliava all’origine magica della funzione della poesia: evocatore di forze per scansioni rituali, esploratore dell’altrove, viaggiatore dell’oltre e del sottostante. In questa direzione non smise mai di comporre versi, raccolti ora in un Canzoniere mio che è diario di viaggio e spostamento verso visioni ardite, che osservano il vivere associato come il moto delle stelle, i cicli della vita e della morte.
Appartato, per scelta deliberata e forse per estremismo poco addomesticabile nelle categorie culturali, ha composto un grande opus di vera letteratura, trasmissibile lettera per nutrire l’azione, il gesto, il sogno. Negli anni Ottanta, mentre scriveva testi ancora in forma teatrale come Cinghiali al limite del bosco o Commedia del poeta d’oro, iniziò a esplorare una vena di narratore che si proiettò, a partire dal decennio successivo, in due cicli: quello dell’epopea di Nane Oca nel Pavano antico e quella dell’Eterno andare di Lorenzo e Cecilia, un violoncellista simile a Orfeo che incantava bestie e piante e la sua sposa, che attraversano con meraviglia il Novecento, fino alla figlia Sofia che, ne L’azione perfetta, vive gli anni cruciali del Nuovo teatro, della Nuova psichiatria e del degenerare della lotta politica nel terrorismo. Questi testi nascono dall’oralità, dalla felicità del raccontare, e diventano narrazioni ad alta voce, che Scabia portava in vari luoghi. All’interno dell’ultimo Nane Oca (Il lato oscuro di Nane Oca, 2019) appare una vera e propria commedia, La fine del mondo: una riflessione sorridente sulla catastrofe dei dinosauri preistorici e sulle nostre minacciate apocalissi, messa in scena a Castiglioncello con dilettanti (come voleva la dicitura «rappresentata dalla Fantastica Compagnia Dilettantistico Amatoriale») e all’Olimpico di Vicenza. Il teatro deve dare diletto, altrimenti non ha ragion d’essere. E quale diletto maggiore di esplorare la lingua, le contraddizioni che viviamo, nel tempo e dentro di noi, sfuggendo le ideologie e cercando le radici del teatro nel gioco, nel rito, nell’ascolto, fuori dai tecnicismi, per l’apertura…
Grande teatro immaginario è stato quello di Scabia, nel senso di immaginale e di non strutturato in regole, repliche, apparizioni in luoghi consueti. Il sito d’elezione delle sue apparizioni era l’utopia, il bosco, il luogo dell’andare e interrogare, il passato il presente il futuro, rompendo regole e argini, lasciando sempre in chi lo incontrava un fuoco e un sorriso.
Ora possiamo leggere i suoi romanzi, che andrebbero ripubblicati, certi suoi libri di poesie, in attesa del Canzoniere mio completo, e alcuni suoi testi teatrali editati negli anni scorsi e parecchio dispersi. Ma anche Scala e sentiero verso il Paradiso (la casa Usher, 2021), racconto dei suoi anni al Dams di Bologna, non di insegnamento ma, come da sottotitolo, Trent’anni di apprendistato teatrale attraversando l’università. Sì, perché per lui insegnare era imparare dagli altri, dall’incontro. E cercare il paradiso, almeno quello terrestre: luogo dove si manifesta il corpo collettivo, dove i venti che ci attraversano diventano suoni e parole.
Chiudo con uno dei paragrafi finali del libro:
«Il teatro è sempre stato l’insieme dei corpi, non l’edificio in cui eravamo. Corpi animali, corpi alberi, corpi uccelli, corpi narratori, corpi ascoltatori, corpi cantori, corpi danzatori, corpi guerrieri. Dai corpi teatro si sono formati il Serpente, gli Alberi e il Paradiso».
di Massimo Marino
Commenti
Scrivi nuovoLascia un commento
L'indirizzo email non verrà pubblicato. Tutti i campi sono obbligatori.